La casa editrice Triestiana presenta al lettore di Parigi i poeti del confine orientale

Fondata dal musicologo, traduttore e scrittore francese Feneyrou assieme a Pietro Milli: «La passione d’oltralpe per la città affonda le radici nei viaggi di Stendhal e Chateaubriand»

Mary Barbara Tolusso

TRIESTE Parigi chiama Trieste. C’è una linea diretta tra la capitale francese e la città giuliana grazie a Laurent Feneyrou, musicologo, scrittore e traduttore. Soprattutto ha fondato, insieme a Pietro Milli, la casa editrice Triestiana, con sede a Parigi, interamente dedicata alla letteratura triestina e con un omaggio alla storica collana di Anita Pittoni, Lo Zibaldone, a cui Triestiana si ispira graficamente. Per ora sono usciti i primi due volumi con testo a fronte: “Balivernes” di Fery Fölkel, con introduzione di Elvio Guagnini, e “Petit chansonnier amoureux” di Virgilio Giotti, entrambi i volumi tradotti da Feneyrou e Milli. L’intenzione è quella di pubblicare scrittori del territorio di cui non esiste una versione in francese: «A ritmo di due, tre volumi all’anno. Pubblicheremo per lo più autori in versi o narratori con una vena poetica», osserva Feneyrou.

Conosce Trieste?

«Ho visitato per la prima volta Trieste alcuni anni fa, in occasione di una lezione che dovevo tenere all’Università di Gorizia. Avevo già letto i grandi maestri della città, come Saba, Svevo e Stuparich – autori già tradotti in francese. “Trieste nei miei ricordi” aveva attirato la mia attenzione su un poeta di cui Stuparich parla con fervore: Virgilio Giotti».

Quindi nasce da Giotti il progetto di Triestiana?

«Nasce da quella ricerca. Solo una decina delle sue poesie erano state tradotte in francese. Cercando nelle belle librerie di Trieste, mi sono procurato allora diversi libri, tra cui “Appunti inutili”. La lettura di questi appunti, nel traghetto per Muggia, mi ha profondamente commosso e ho deciso di tradurre questa breve opera. Da quel momento in poi la lettura dei poeti di Trieste mi ha entusiasmato sempre di più, grazie anche alle numerose conversazioni con il rimpianto Francesco Cenetiempo. Tant’è che ho incominciato a tradurre le loro raccolte, insieme al caro amico Pietro Milli. Abbiamo deciso quindi di creare questa casa editrice, di cui sono appena stati pubblicati i primi due libri».

Fölkel e Giotti, tra l’altro due poeti che si sono espressi anche in dialetto. Come ha affrontato la traduzione?

«Bisogna premettere che il dialetto è visto molto diversamente (ed è spesso criticato) in Francia, paese dalla lunga tradizione centralizzatrice. Per tradurre Giotti, Marin o Zanini si può avere la tentazione di ricorrere al francese antico o ad alternative ortografiche che imitino la scrittura dialettale. Ma ci si allontana così da ciò che questa lingua è di per sé. Un’altra difficoltà è il lessico: “No xe realtà sensa parole”, ciascuno dei dialetti della regione guarda il mondo in modo diverso».

Per esempio?

«Per esempio alcuni dialetti possiedono un vocabolario straordinariamente ricco per descrivere le navi e ciascuna delle loro parti. Tutto ciò resiste alla traduzione, che si rivela talvolta impossibile. L’intraducibile può essere anche ciò che Pier Paolo Pasolini chiama la “passione dei dialettali”, quel divario con l’italiano, quello sradicamento “in loco” che risulta indicibile in francese e che fa in modo che la parola rimanga persino senza corrispettivi, quasi senza realtà. Ma mi sembra che questa sia l’aporia di ogni traduzione poetica. Per “Il piccolo canzoniere” di Giotti, ho studiato con Pietro Milli i dizionari utilizzati dal poeta, basandomi inoltre su altri dizionari e grammatiche, e prestando la massima attenzione ai colori e al ritmo dei versi. Tradurre qualcosa di semplice come “Versi pici e tristi” è già una sfida».

La cultura francese è sempre stata molto sensibile alla letteratura triestina, lo spiegano casi come Italo Svevo o Boris Pahor. Lei come se lo spiega?

«Ci sono diverse spiegazioni: la mitizzazione di Trieste come città letteraria; un chiaro interesse per la cultura mitteleuropea, la storia asburgica e l’identità di frontiera; gli stretti rapporti della Francia con Rilke o Joyce (e Trieste attraverso di loro); la figura tutelare, rispettata e ammirata di Claudio Magris… Ma mi sembra che le radici siano più antiche e risalgano al XIX secolo, con autori come Charles Nodier, Stendhal o Chateaubriand, che hanno visitato Trieste e non solo. Penso in particolare a Joseph Lavallée e al suo libro “Voyage historique et pittoresque de l’Istrie et de la Dalmatie».

Qual è, a suo parere, l’elemento essenziale della letteratura triestina che la cultura francese potrebbe apprezzare?

«Non lo so ancora. Ma in questi mesi ho partecipato a diversi incontri sulla letteratura della regione e sono rimasto stupito dall’attenzione del pubblico, sia a Parigi che altrove. Ne sono testimoni anche Pietro Milli e Michel Valensi, con il quale ho tradotto due raccolte poetiche di Biagio Marin per le Éditions de l’éclat, di cui è direttore. Le Éditions de l’éclat coeditano tra l’altro i libri di Triestiana»

Il catalogo prevede anche autori goriziani come Biagio Marin o il rovignese Ligio Zanini. Quindi il focus si allarga sul territorio?

«Sì, senza nostalgia per le divisioni territoriali di un tempo, vorremmo portare alla luce una letteratura che è fiorita tra le antiche contee di Gorizia, Gradisca e il litorale, oggi sloveno e croato, dell’antica Histria, nel periodo che va dai dissensi precedenti alla Prima guerra mondiale fino ai giorni nostri».

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