La filosofia del Subbuteo il gioco del tempo che non c’è più
Se pure il fantomatico gruppo Bilderberg, quello che si dice controlli e decida la politica mondiale, negli ultimi anni è stato analizzato al punto da essere ridotto a una casa di vetro, e se anche la riservatissima massoneria per catturare nuovi adepti apre le porte delle sue segrete stanze neanche fosse il Fai alle giornate di primavera, è rimasto solo un circolo misterioso come le profondità di deep internet. È il mondo dei giocatori di Subbuteo, il gioco da tavolo che replica su un panno verde e con giocatori in scala una partita di calcio. Scomparso dai negozi anni fa assieme all’estinzione dei cortili, risucchiato prima nello schermo delle playstation e poi nel mondo ovattato e impalpabile del virtuale.
Eppure, e qui sta la faccia misterica, orfica del Subbuteo, del gioco si continua a parlarne nei forum e soprattutto lo si pratica nei tornei allestiti in giro per l’Italia. Chi oggi ha più di cinquant’anni ne è stato contagiato in gioventù. Enrico Letta non fa mistero di essere uno che lo pratica ancora, ed è forse uno dei più noti a fare coming out. Ma chi avrebbe detto che Matteo Boniciolli, l’allenatore di basket triestino, vada orgoglioso di possedere delle squadre di Subbuteo che risalgono a cinquant’anni fa? E il filosofo Pier Aldo Rovatti, che rivendica di avere un fratello che ha inventato un gioco antesignano del Subbuteo e che egli stesso ha praticato con grande godimento da piccolo?
Rovatti è autore di un libro come ‘Per gioco’, nel quale esplora assieme al sociologo Alessandro Dal Lago, la dimensione esistenziale del giocare e in un ideale scaffale del giocatore, accanto a quello di Rovatti, potrebbe essere collocato ‘Filosofia del Subbuteo’, di Paolo Dellachà (il melangolo, 125 pagg., 10 euro), che prova a spiegare il fascino che ancora oggi avvolge questo gioco.
L’autore, avvocato genovese, non è un nostalgico dei bei tempi andati, anzi, elogia i videogiochi, ma spiega come il Subbuteo possa offrire un’esperienza di gioco molto più completa e affascinante. Se nei videogiochi il partecipante è a sua volta, dichiaratamente, giocato dal programma e dalla sua intelligenza artificiale, nel Subbuteo il giocatore deve vedersela con il suo avversario in carne e ossa e con se stesso. Inoltre, il campo diventa la scena perfetta per rievocare altri terreni e luoghi, sognati o conosciuti.
«Ciò che ogni appassionato di Subbuteo va a fare è in fondo questo; interagire con lo spazio costruendo laboriose e futili magie di trasformazione», scrive Dellachà. Ma il Subbuteo è anche altro. È collezionismo, perché le scatole verdi che contengono i giocatori dipinti a mano negli anni Sessanta a Tunbridge Wells, nel Kent, dalle casalinghe reclutate dall’inventore del gioco, Peter Adolph, sono vendute anche a centinaia di euro. È modellismo, perché molti appassionati amano colorare da sé le miniature riproducendo le maglie delle squadre da disporre sul panno verde.
Giocare a Subbuteo significa anche riprodurre un tempo in cui c’era tempo e i ragazzi, affondando nella noia, creavano lo spazio per una relazione tra individui. Per questo i ragazzi di oggi, i neuroni allenati alla velocità, le dita frenetiche sulla tastiera, la soglia di attenzione ridotta al minimo, rifuggono la lezione del lento universo del Subbuteo. —
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