La Fiume folle di D’Annunzio

D’Annunzio come Che Guevara e l’impresa di Fiume come una replica in sedicesimo della Parigi delle avanguardie o della Berlino di Weimar. Con uno sguardo originale e l’occhio dell’ammiratore, il giornalista Pier Luigi Vercesi ripercorre i quindici mesi dell’ultima epopea del Vate in ‘Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia’ (Neri Pozza, 158 pagg., 12,50 euro). Quello che ci raccontano i manuali di storia è che D’Annunzio guidò un migliaio di reduci dalle trincee alla conquista di quanto la propaganda nazionalista riteneva spettasse all’Italia, e che la ‘vittoria mutilata’ aveva impedito di ottenere.
Il Vate era al suo ultimo spettacolo, aveva ancora il suo nome scritto a caratteri cubitali sulla locandina di questo drammone storico, ma stava per lasciare la scena a un altro protagonista. Mussolini, da direttore del Popolo d’Italia, aveva lanciato una sottoscrizione a favore dell’impresa di D’Annunzio e vedeva nel Vate una sponda importante per dare prestigio al suo movimento, fondato nel marzo di quel 1919. D’Annunzio cercava gli ultimi colpi d’artificio di una vita condotta come fosse un’opera d’arte.
In pochi mesi Fiume si trasformò in una variopinta congerie di avventurieri, artisti, futuristi di sinistra, ex arditi, bolscevichi, scrittori come Giovanni Comisso. Non mancavano le donne e la droga. Nani e ballerine, si sarebbe detto oggi. Una babele nella quale il poeta sguazzava come nel suo brodo primordiale. Tutto era molto estetico, si viveva in un’assemblea permanente, D’Annunzio coniava slogan che saranno utilizzati dal fascismo, come il celebre Eja eja alalà, riempiva l’immaginario di camicie nere coi teschi, cinture coi pugnali, saluti romani. Trovate che piacevano perché il Vate aveva un indubbio fiuto per la seduzione. Tutto questo fondale di cartapesta sfociò poi nell’armamentario di cui si servì il fascismo per dare un sostegno alle tendenze più disparate che lo animavano.
In questo brulicare di energie, Vercesi vede trasparire gli echi di un brivido che percorreva l’Europa contemporanea, gli anni folli di Parigi con una spruzzata di seltz dell’età del jazz. A Fiume vigeva la Carta del Carnaro, vi si leggeva che la religione doveva essere la bellezza e l’armonia, nella capitale francese in quegli anni si incrociavano le avanguardie artistiche americane ed europee che segnarono in modo indelebile la storia del Novecento. Parigi e Fiume come un laboratorio di idee, sperimentazione, creatività, nutrito da irregolari, da una generazione perduta dagli orrori della guerra. Dalla mancanza di futuro e dall'assenza di certezze nel presente.
Tra slogan e baccanali si arrivò all’epilogo. A Versailles, sul tavolo delle grandi potenze che in quei giorni stavano cercando faticosamente la via degli accordi, si firmò il trattato che faceva di Fiume uno stato libero, prodromo della sua annessione all’Italia. Giolitti, assicuratosi che Mussolini aveva intanto deciso di sganciarsi dall’ingombrante poeta, passò all’azione. Qualche colpo di cannone sparato dall’Andrea Doria e i legionari levarono le tende. Qualcuno ci rimise la pelle, ma quella che andò in scena a Fiume fu una commedia molto italiana.
Se con molta ammuina e un gioco delle parti alla can che abbaia non morde si chiuse l’avventura fiumana, rimane aperta l’interpretazione della sua influenza sul fascismo che stava per andare al potere. Quell’esperienza totalitaria e liberticida non fu, conclude Vercesi, una conseguenza del ‘fiumanesimo’, ma una reazione a esso, il ripudio, in nome del ritorno all’ordine, di quella atmosfera cosmopolita, mondana e liberale.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo