La follia scuote la campagna inglese e la famiglia si scopre poco “british”

Solo apparentemente posati, gli Edgeworth diventano di colpo protagonisti di trasgressioni e atrocità

Donatella Tretjak

Una dimora vittoriana radicata nella campagna inglese del 1885, una piccola comunità dedita al chiacchiericcio, una famiglia dalla tipica patina nobiliare. Buone maniere, l’immancabile beneficenza, le messe della domenica nella chiesa del paese, i tè pomeridiani, i solitari incontri maschili in biblioteca. Tutti posati, ben educati. Very british. Una famiglia - padre, madre, due figlie - apparentemente normale e stimata, che però con il passare delle pagine de “Il capofamiglia” di Ivy Compton-Burnett (Fazi Editore, pagg. 348, euro 19) normale non è, e nemmeno perfetta e tanto meno solida. Anzi, come fosse una pentola a pressione non c’è personaggio che alla fine non si sveli, e non sempre in meglio. A iniziare dal cerbero numero uno.

Il patriarcato trova infatti la sua più fedele espressione nella figura di Duncan Edgeworth: padre tirannico, anaffettivo e lunatico, antipatico e sgradevole come pochi, è il capofamiglia per antonomasia. Attorno a lui si muovono, atterriti o solleticati dal desiderio di sfida, i membri della sua famiglia: la moglie Ellen, “naturalmente” dimessa e timorosa, le due figlie Nance e Sybil, tanto egocentrica e sarcastica l’una quanto affettuosa e remissiva l’altra, e infine il nipote Grant, giovane donnaiolo felice nullafacente, costantemente in competizione con lo zio di cui è il perfetto contraltare nonché erede dell’intera proprietà Edgeworth. C’è poi tutto il coro dei vicini, che entra ed esce da quella casa e dalle loro vite con un perbenismo solo apparente.

Nella sala da pranzo va in scena quotidianamente una battaglia su più fronti: sotto il velo di una conversazione educata si intuiscono tensioni sotterranee e si consumano battibecchi, giochi di potere, veri e propri duelli a suon di battute glaciali: «Non stiamo semplicemente facendo colazione». Duncan sovrasta, opprime, vuole il controllo totale della sua famiglia (persino i libri non graditi finiscono nel caminetto e i ritratti di famiglia “traslocano” a seconda del suo umore), la sua stima nei confronti di moglie e figlie è pari a zero e si sente in dovere di ricordarlo alle interessate a ogni occasione. «Oh, comandi tu padre. Devi smetterla di voler fare l’uomo e anche la donna», si lamenta la figlia maggiore Nance, accusandolo di occuparsi anche di ciò che è prettamente femminile (secondo i canoni di fine Ottocento) pur di segnare il territorio. Fino a quando la famiglia viene colpita da un lutto improvviso (la morte di Ellen), che mescola le carte in tavola innescando una reazione a catena; strato dopo strato, ognuno dei personaggi svelerà la sua vera natura, in un crescendo di trasgressioni che comincia con l’adulterio e culmina con l’omicidio. La prematura scomparsa della consorte e la scelta di una seconda moglie di quasi quarant’anni più giovane di lui è il bivio: da qui in poi niente sarà più come prima. E tutti mostreranno il peggio di sé.

Così, in questo romanzo dalla partenza quasi in sordina si viene travolti da scandali, confessioni, delitti ma allo stesso tempo da una scrittura fatta di dialoghi fitti, di grande sagacia. Ci si arrabbia e ci si diverte. Perché questo piccolo covo di vipere è realistico e spassoso. I drammi familiari, i privilegi maschili e la sottomissione femminile, le battute al vetriolo: il meglio di Ivy Compton-Burnett concentrato in un romanzo, finora inedito in Italia, che lei stessa considerava il suo preferito. Un tassello importante nella produzione di un’autrice fondamentale del Novecento inglese, amata dai più grandi scrittori (nei suoi diari, Virginia Woolf definiva la propria scrittura «di gran lunga inferiore alla verità amara e alla grande originalità di Miss Compton-Burnett»), con il pallino di raccontare la famiglia, le sue incrinature, le sue debolezze e a volte le sue bassezze. —© RIPRODUZIONE RISERVATA

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