La Libellula di Tiziano Scarpa vola fra le ossessioni del contemporaneo
“Schietti, severi, esatti, infelici, sono i miei veri unici amici”, è il verso che chiude “Una libellula di città e altre storie in rima” (Minimum Fax, pagg. 100, euro 10,00), ultima raccolta dell’autore veneto Tiziano Scarpa, da oggi in libreria. Con estro gotico e ludico, Scarpa raccoglie trenta storie in cui i canoni consueti vengono rovesciati. Come quella di un adolescente a caccia di “Disperazione”, vera e propria musa d’amore, che supera di gran lunga le amiche quanto a conquiste. O traccia storie intorno alle parole, dove verbi, articoli e aggettivi sono i veri e propri soggetti del poema e intanto evidenzia quanto sia ambiguo e stupefacente il linguaggio. Lo fa con una lingua piana, inventiva certo, ma seguendo le regole della linearità. Non occorrono ricercatezze eccentriche per inventarsi una lingua. E Scarpa lo sa, d’altra parte il suo bagaglio è articolato, un autore che ha sempre avuto più registri a disposizione passando dalla poesia, al dramma, al romanzo. Così i nuovi versi sono, in parte, il prodotto di alcune performance realizzate in passato, ora rimpolpate dall’aggiunta di nuove storie. Passano in rassegna vari tipi di esistenza e modalità di stare al mondo, talvolta declinandosi alle ossessioni della contemporaneità: dalle manie di eterna giovinezza a quelle della mitomania, dai troll di internet a quelli della letteratura. Oppure l’antieroe ha un passo più esistenziale, talvolta lirico, non senza piccoli accenni splatter, ma tutto assume, nell’instabilità imperante, un passo leggero. Merito della forma, la metrica aiuta la velocità del ritmo e il ritmo non concede depressioni. Tuttavia niente resta in superficie. Scarpa ci attira dove vuole, ci fa sfiorare piccoli campi minati, tutte quelle zone d’ombra dove di solito preferiamo non sostare troppo. Che cos’è l’amore? E la felicità? Anche il tormento e il dolore hanno una loro musica, in queste rime. Le tonalità si intensificano, i significati raddoppiano, pare di stare dentro un gioco virtuale, dove ciò che non è reale pare più vero della realtà. O ancora l’autore ci richiama negli ambigui giochi di identità dove è difficile sentenziare, ormai, ciò che siamo e ciò a cui aspiriamo. Il nonsense trasforma le categorie comuni e buono e cattivo ci paiono termini con poco senso. O forse basta guardarli da un’altra prospettiva, le cose si trasformano dalle diverse angolazioni della lingua. E anche noi: “Se di notte ti senti a disagio/occhio che forse sei tu il malvagio”. —
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