L’Algeria di nonno Alì è soltanto una filastrocca per la giovane Naima

«Ho perso le mie radici», afferma Naima. Mica uno scherzo. Ma le radici di una vita, intesa come persona, attecchiscono sul “chi sono ora” o ti stritolano appena ti chiedi “chi ero”? Non esiste una risposta univoca, standard. Per ciascuno è diverso. Anche per Naima, la protagonista del romanzo di Alice Zeniter “L’arte di perdere” (Einaudi, 433 pagg, euro 22,00). Si sente francese e non si è mai interrogata sul passato della sua famiglia. Per lei, l’Algeria è una filastrocca incomprensibile cantata dalla nonna, i capelli ricci e la pelle bruna ereditati da suo padre, la schiera di zii e zie riuniti per i banchetti a base di couscous. Ma Naima collabora con una galleria d’arte, a Parigi. Che, guarda caso, la spedisce nel “suo” Paese d’origine, l’Algeria, con la missione di recuperare le opere di un vecchio e malandato artista algerino. Ecco qua: “L’arte di perdere” allora ricompone i tasselli mancanti - e colma i lunghi silenzi - di una famiglia attraverso il ritratto di tre generazioni: nonno Alì, papà Hamid, la nipote Naima.
Nonno Alì è un’autorità nel villaggio tra le montagne della Cabilia berbera: la sua famiglia comanda perché negli anni Quaranta la fortuna e il torrente gli mettono davanti al naso un tornio per l’olio. Dopo il tornio arrivano i campi, la piccola rivendita sul crinale, il commercio su scala regionale, l’appartamento in città. Dio, invece, gli regala un primogenito bello, intelligente e sano come Hamid. Ma quando nel 1962 l’Algeria ottiene l’indipendenza, Alì- che si sente francese e per e con i francesi ha combattuto a Montecassino, in Italia - non è più l’uomo onorato e rispettato del suo piccolo villaggio. I fermenti nazionalistici del Fronte di liberazione non lo convincono. Considera quegli uomini piuttosto dei banditi, mal organizzati e maledettamente pericolosi. Semplicemente, Alì vuole conservare ciò che ha acquisito. È riuscito a fare della sua casa povera una casa piena e desidera che questo duri in eterno. Collabora con gli “oppressori” francesi e a questo punto, per evitare una vendetta che vuol dire morte, lascia per sempre gli uliveti della sua Cabilia. E finisce, lui e i figli, nel 1962 in Francia, in una baraccopoli fatta di legno, eternit e fibrocemento. Lavora per l’Ufficio nazionale delle foreste: tutti lì vivono tra gli alberi e lavorano tra gli alberi. Mestiere ideale per evitare qualsiasi contato con i francesi “veri”.
Due anni così, e poi tutti nella banlieue di Flers: sperano di finire in una piccola Parigi, alla famiglia di Alì sembra che la “s” alla fine del nome sia garanzia di eleganza e di sviluppo. Finiscono per mangiare couscous con le patatine fritte, o la pizza al montone. Divisi un po’ di qua e un po’ di là. Alla fine, quello che non viene trasmesso si perde e basta. Si perde con Hamid il ribelle, si perde soprattutto con Naima l’indifferente. «Tu provieni da qui, ma questa non è casa tua», dice l’amico algerino a Naima dopo la visita al villaggio dei suoi nonni. In quelle tre case colorate si aggirano occhi, volti, capelli così familiari. Come quelli delle sue sorelle. E quando Naima fa vedere a nonna Yema quei visi e quelle stanze dove è nato Hamid (gli altri nove figli saranno francesi di Francia...), e le chiede «Nonna, non vorresti tornarci?», la risposta di Yema è lapidaria: «Non torno a casa mia per andare a dormire in albergo».
Alice Zeniter, questa giovanissima - è del 1986 - e già premiata drammaturga e regista francese, racconta l’epopea di uno tanti popoli bistrattati dalla storia, con delicatezza. Un romanzo scritto con sensibilità commovente che mai cade nel pietismo. Forse perché anche le sue, di origini, sono algerine. Ma ciò che la Zeniter dimostra con la sua leggerezza di penna è che in realtà la generazione di Naima, 29 anni, non “arriva” da nessuna parte del mondo, è in movimento. Avanza nella vita. Con consapevolezza, mai con nostalgia o rimpianti. —
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