«L’amore per il cinema mi ha regalato sogni e molte tribolazioni»

Il 2 marzo lo scrittore e regista riceverà a Roma Il Nastro d’argento speciale alla carriera
Di Paolo Lughi

di PAOLO LUGHI

Abbiamo incontrato Giorgio Pressburger in un caffè triestino affacciato sulle rive e sul mare. Ma è dalle sponde del Danubio, nel cuore di Budapest - dove lo scrittore, drammaturgo e "maître à penser" è nato il 21 aprile di 80 anni fa - che parte il nostro viaggio nei suoi ricordi cinematografici.

È la prima volta che Pressburger racconta in un'intervista il suo rapporto col cinema, di cui si dichiara "innamorato". L'occasione è il Nastro d'argento speciale alla carriera (storico premio del Sindacato giornalisti cinematografici), che riceverà il 3 marzo a Roma. Un omaggio al percorso di questo intellettuale di famiglia ebraica perseguitata dal nazismo, esule dall'Ungheria stalinista, triestino d'adozione, la cui carriera - oltre al teatro, all'opera, alla radio, alla tv e alla letteratura (con un nuovo romanzo in uscita) - ha incluso in modo significativo anche il cinema. Ci sono le regie come "Calderón'" (1981) e "Dietro il buio" (2011, da “Lei dunque capirà” di Claudio Magris), e i recenti documentari "L'orologio di Monaco" (2014) e "Il profumo del tempo delle favole" (2016), ispirati a suoi lavori, scritti e interpretati dallo stesso Pressburger e diretti da Mauro Caputo.

Come si prepara a ricevere il Nastro?

«Sono felice - sorride - Mi sento in parte ripagato delle tribolazioni subite nel tempo dall'ambiente del cinema, soprattutto dalla distribuzione».

Flashback. Quali sono i suoi primi ricordi sul cinema?

«Avevo dieci anni, a Budapest nel dopoguerra, e ci andavo anche tutti i giorni, con mio padre e i miei fratelli. Il cinema fa parte della mia formazione. Rammento film per ragazzi, curiosamente con le arti al centro. Ad esempio “Il fiore di pietra” di Ptushko, tratto una favola russa, con un bambino che vuole diventare scultore. Oppure “È accaduto in Europa” di Radványi, scritto dal teorico Béla Bálasz, con un gruppo di bambini orfani accolto da un vecchio direttore d'orchestra. Poi ho ricordi più inquietanti, come “Primavera mortale” di Kalmár, una storia d'amore in cui la protagonista viene ammazzata. Lei era l'attrice e cantante Katalin Karádi, massima star in Ungheria, presto espatriata clandestinamente. Nel film era molto carina, serviva in un ristorante, suonava l'armonica. C'era un'atmosfera morbosa che mi colpì. Di quegli anni ricordo una volta le attenzioni ricevute da un adulto. Accadeva anche questo al cinema. Più tardi mi interessai ai film d'attualità. C'era una sala nel cuore di Budapest che li proiettava. Vidi l'impiccagione dei criminali di guerra, la fine dei tiranni».

E dopo la fuga nel '56 dall'Ungheria stalinista?

«In Italia volevo proseguire gli studi e fare il regista. Tentai l'esame al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. La prova prevedeva di scrivere una sceneggiatura. Io adattai una poesia del Montale più politico, “La primavera hitleriana”, che alludeva al primo incontro fra Mussolini e Hitler a Firenze nel '38, e che iniziava con: “Folta la nuvola bianca delle falene impazzite...” (cioè rese folli da quell'evento). Con mia sorpresa superai l'esame. Ma ero un esule povero in canna, e così optai per l'Accademia d'arte drammatica che prevedeva una borsa di studio. Al Centro sarei stato compagno di corso di Bellocchio e della Cavani».

Che rapporto aveva con il cinema italiano dell'epoca?

«Nei primi anni ho fatto anche il doppiatore, per De Sica nel “Giudizio universale”, per Jules Dassin in “La legge”. Mi chiamavano per dare la voce a stranieri o a borghesi un po' stupidi. Poi, grazie al mio lavoro teatrale, ho conosciuto a Roma De Sica, Germi, Fellini, Pasolini. Chi apprezzavo di più era Visconti, che aveva il senso della storia e riusciva a parlare in nome di un popolo e di una nazione intera. Ma tutti loro esprimevano un'idea del cinema e insieme della società».

Qual è stato il suo periodo più cinefilo?

«Negli anni '70 andavo moltissimo al cineclub con l'attore Eros Pagni, che aveva lavorato con Gassman a Tognazzi. Gli sono grato perché, lui grande fan di Totò, mi ha fatto apprezzare i suoi giochi di parole che prendevano in giro il linguaggio burocratico».

Frequentava Callisto Cosulich e Tullio Kezich?

«Eravamo amici. Cosulich l'ho conosciuto quando scrivevo per “Paese sera”. A Kezich ho fatto vedere per primo nell'81 il mio film d'esordio, “Calderón” tratto da Pasolini. Se n'è uscito con una battuta: “È il più bel film di Pasolini”. Era chiaro che a Tullio non piacevano molto i film di Pier Paolo».

“Calderón” vinse il premio della critica a San Sebastian e il Globo d'oro per l'opera prima, vinto da Moretti e Troisi nei due anni precedenti. Come mai lei ha invece lasciato il cinema per 30 anni?

«Dopo “Calderón” proposi in giro molti soggetti e sceneggiature: a Renzo Rossellini alla Gaumont, a Ettore Bernabei alla Rai, a un produttore francese. Capii che per realizzare un altro film avrei dovuto spendere il mio tempo in anticamere, senza fare altro. Però ho realizzato una decina di film pubblicitari, un documentario contro il razzismo (Premio Pasolini '93), film industriali e tante cose per la tv, fra cui “Il padre” da Strindberg, “Woyzek”, “Momento due”».

Quanto è stato importante il cinema nel resto della sua carriera?

«Moltissimo. Ha influenzato l'80 per cento del mio lavoro di regista lirico. Quando ho debuttato nel '77 alla Fenice con “La donna senz'ombra” da Hoffmansthal, ho messo in scena uno spettacolo movimentato come un film, che ha avuto venti minuti di applausi. Il cinema ha avuto rilievo anche nella mia direzione del Mittelfest, dove ho presentato “Kafka” di Soderbergh».

Esiste un film della sua vita?

«Più d'uno. Quelli di Luis Buñuel, “Viridiana”, “L'angelo sterminatore”. È il regista che più mi ha ispirato. Ha realizzato l'idea, che già avevo, di mescolare situazioni reali e irreali e confondere gli spettatori su dove si trovassero, dentro o fuori la realtà. Poi “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, “Andrej Rublev” di Tarkovsky, i capolavori di Fellini, tutti film con un profondo approccio ai problemi del mondo. E poi c'è “Ordet” di Dreyer. Ricordo ancora quando lo vidi al Rialto a Roma. Un'opera audace perché mostra un miracolo che si verifica grazie alla fede di una bambina. Tratta temi come appunto la fede, la parola, però con uno stile minimale. C'è l'influenza di “Ordet” nello stile del più recente film che ho scritto, “Il profumo del tempo delle favole”, tratto dal mio testo “Sulla fede” e diretto da Mauro Caputo. Non ho voluto aggiungere nulla per evitare la finzione che dà la parola inutile, quella che non aspira a niente. Il linguaggio talvolta è una sorta di menzogna».

Come è avvenuto il suo recente ritorno al cinema?

«Grazie ai nuovi mezzi tecnici che ti permettono di evitare le pastoie dei costi, e di fare quasi tutto quello che vuoi. Così sono riuscito a esprimere ciò che avevo sempre in testa, fin da quando penso al cinema. Fin dalla sceneggiatura della poesia di Montale, che avevo in mente anche in immagini, con le falene che impazziscono e il Ponte vecchio a Firenze. Sempre con Caputo stiamo preparando un nuovo film tratto dal mio romanzo “La legge degli spazi bianchi”, coprodotto con l'Istituto Luce. Quella iniziata con “L'orologio di Monaco” sarà così una trilogia».

Ha visto che la regista ungherese Ildikó Enyedi ha vinto l'Orso d'oro a Berlino?

«Sì, una bella notizia, anche perché la Enyedi non girava ormai da 17 anni. Come nel mio caso, non è mai troppo tardi».

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