L’architettura di Tito utopia di cemento al Moma di New York

Dal 15 luglio al prestigioso Museum of Modern Art gli edifici modernisti e i suoi creatori tra il 1948 e il 1980

Il Paese non esiste da più di due decenni, vive ancora solo nella memoria dei nostalgici - non sono pochi – e i suoi traguardi e i capolavori prodotti, anche architettonici, sono ormai dimenticati. Ma la Jugoslavia - o meglio l’architettura “inventata” e patrocinata da Tito per rappresentare plasticamente l’energia e la novità dello Stato socialista - all’estero gode ancora di consensi importanti. E di sinceri apprezzamenti.

Lo conferma la decisione del prestigioso Museum of Modern Art (MoMA) di New York, che ha annunciato che organizzerà dal 15 luglio di quest’anno al 13 gennaio 2019 “Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980”, una esposizione interamente dedicata all’architettura socialista jugoslava, la prima di questo genere negli Stati Uniti. Il perché di questa scelta, focalizzata su stili architettonici che suscitarono l’interesse internazionale quando la Jugoslavia era ancora in vita, oggi nelle nuove piccole patrie balcaniche e all’estero negletti?

Lo spiega al Piccolo Martino Stierli (Philip Johnson Chief Curator of Architecture and Design, The Museum of Modern Art), organizzatore della mostra assieme a Vladimir Kulic (curatore ospite) e Anna Kats (assistente curatore). Scelta che non è stata fatta perché «la Jugoslavia non esiste più», ma determinata dalla convinzione che il Paese «possedeva una produzione architettonica moderna estremamente ricca», vibrante e ibrida, un riflesso delle scelte politiche della Belgrado di allora.

La Jugoslavia di Tito, non solo in architettura, puntava infatti in alto. «Si collocava tra l’Occidente capitalista e l’Est socialista», ma voleva – ricorda una nota del MoMA dedicata alla mostra – superare la «dicotomia tra Ovest ed Est». Lo fece, in politica estera, diventando leader del Movimento dei Paesi non allineati, club di nazioni che cercavano una terza via, traendo beneficio – e raccogliendo finanziamenti – da entrambi i blocchi. Allo stesso tempo, la leadership politica jugoslava cercava – e in parte riuscì nell’intento – a lanciare una rapida «modernizzazione» all’interno dei confini nazionali. Qui entra in gioco anche l’architettura, perché l’idea di fondo era che le nuove costruzioni dovevano da una parte far crescere l’economia, ma anche «migliorare la vita quotidiana dei cittadini jugoslavi», coinvolgendo le differenti culture ed etnie che componevano al tempo il mosaico della Federazione. E l’architettura modernista, il fiore all’occhiello della Jugoslavia, «venne sostenuta» dal governo e la Jugoslavia fu «l’unico Paese socialista in Europa dove essa venne attuata con cura e praticamente senza interruzioni». Questo mentre contemporaneamente, nel resto dell’Europa orientale che non aveva rotto con il blocco sovietico come fece Tito, si diffondeva la politica culturale stalinista, «chiaramente impressa nelle città e nell’architettura» dell’Europa dell'Est del tempo, sottolinea Stierli.

Qual è il valore aggiunto dell’architettura jugoslava dei tempi del Maresciallo? E quale il grande fascino da averla portata a meritarsi una “sfilata” sul tappeto rosso del MoMA? Lo spiega lo stesso museo, nel comunicato che ha promosso la mostra. I cui protagonisti saranno non solo le opere, ma soprattutto «gli architetti jugoslavi» che operarono tra il 1948 e il 1980. Furono loro a vedersi piombare tra capo e collo ordini complessi da realizzare. Dovevano infatti «rispondere a domande e influenze contraddittorie», per riuscire a «sviluppare uno stile costruttivo post-bellico in linea ma insieme distinto dagli approcci di design visti» ai tempi «in Europa e oltre». I tratti della nuova architettura jugoslava post-1948? Diversi, ma ancora oggi individuabili passeggiando con l’occhio attento, a Zagabria, Belgrado, a Skopje. In parte ispirati forse, specifica il MoMA, a grattacieli che ricalcavano la moda contemporanea – come ad esempio il grattacielo “Beogradjanka”, a Belgrado, passando per i «condensatori sociali», i condomini in stile brutalista di Novi Beograd.

Sono anche quelli esempi di pianificazione urbana e di sviluppo architettonico che oggi vengono rivalutati, non solo dal MoMA. E che simboleggiano quelli che, secondo i curatori della mostra, erano i valori dell’architettura, ma anche dello «stesso Stato jugoslavo» prima della morte di Tito e del collasso del Paese. «Pluralismo radicale, ibridismo» e anche un po’ di «idealismo». Saranno questi gli elementi architettonici e storici-chiave che saranno esaminati attraverso la mostra, che toccherà, ha spiegato il MoMA, esempi di tutti i tipi. «Dagli interni della Moschea bianca» di Visoko, nel cuore della Bosnia, fino ai piani coraggiosi – forse azzardati per i tempi – di ricostruzione della città di Skopje, devastata dal terribile terremoto del 1963, basati anche sulle intuizioni e i progetti di Kenzo Tange. Fra i progetti e lavori che saranno esposti, quelli di architetti di punta del periodo, da Bogdan Bogdanovic a Juraj Neidhardt, da Svetlana Kana Radevic a Edvard Ravnikar, passando per Vjenceslav Richter e Milica Steric.

Per decifrare i contorni e i fini dell’architettura socialista jugoslava, saranno esposti oltre quattrocento disegni e schizzi, modelli, fotografie, video e pellicole cinematografiche, ritrovate in «archivi municipali, collezioni familiari e musei di tutta la regione», spiega sempre il MoMA. Sottolineando poi che, quella newyorkese, sarà una mostra rivolta a un pubblico internazionale, che potrà apprezzare i lavori dei «maggiori architetti» del tempo «per la prima volta». Opere che, nei Balcani, sono spesso dimenticate, in particolare gli “Spomenik”, i grandi monumenti commissionati da Tito in tutta la Jugoslavia per celebrare la guerra di liberazione e la nuova Jugoslavia, molti distrutti durante le ultime guerre perché memoria scomoda, la maggior parte di essi oggi in abbandono. «L’architettura del dopoguerra, in particolare le strutture brutaliste, sono trascurate in molte parti del mondo, incluse le terre dell’ex Jugoslavia», illustra Stierli. E uno dei fini della mostra al MoMA è anche «aumentare la consapevolezza e l’apprezzamento per il valore estetico, sociale e storico di molte di queste costruzioni e monumenti». «Quest’ultimi – continua – spesso sono fraintesi come glorificazione dei regimi comunisti, quando in realtà commemoravano vittime del fascismo, siti di campi di concentramento e le atrocità della Seconda guerra mondiale».

La «funzione antifascista e di memoria è qualcosa su cui la mostra vuole porre l’attenzione». Ed è anche importante notare, chiosa Stierli, che lo status «dei singoli spomenik dipende dal contesto e dalla comunità» dove sorgono, come dimostrerebbero i tentativi, difficili e spesso contrastati, di «restaurare la Necropoli dei partigiani», grande opera di Bogdan Bogdanovic a Mostar, un segnale di «un mutamento d’atteggiamento verso l’eredità del socialismo».

Ma c’è oggi qualche eredità più diffusa dell’architettura socialista della Jugoslavia nel resto del mondo? «Molti giovani architetti di successo nell’ex Jugoslavia – sintetizza Stierli – in particolare quelli della vibrante scena in Slovenia e Croazia, fanno direttamente riferimento» a questo lascito. In termini più ampi, «penso che il contributo del MoMA possa servire da promemoria» sul fatto che «l’architettura può fiorire solo se c’è ampia consapevolezza nella società del suo potere di trasformarla ed elevarla, assieme alla qualità della vita. Nelle condizioni contemporanee, questa comprensione è spesso assente a vantaggio di un sempre più prevalente – e inquietante – visione dell’architettura come merce di lusso». E non più come strumento di progresso sociale.

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