Lavia: «I Classici oggi ci insegnano ad abbattere i muri»

L’attore e regista racconta in un libro i grandi autori «Strehler? Scriveva non con la penna, con gli attori»
Di Federica Gregori

di FEDERICA GREGORI

La vita o si vive o si scrive, diceva Pirandello, ma non vale per lui. Ha appena tagliato il traguardo dei 55 anni di carriera, sempre saldo alle vette del teatro italiano e internazionale sia come interprete che come direttore dei teatri più prestigiosi. Non si è fatto mancare nulla, nemmeno il cinema, lasciando un segno davanti e dietro la macchina da presa. Ora esce nelle librerie con un'opera scritta durante l'ultima tournèe. Ma, sorpresa, non è l'autobiografia che penseremmo: in “Se vuoi essere contemporaneo leggi i classici” (Piemme Edizioni, pagg. 214. euro 17) Gabriele Lavia accompagna il lettore in una passeggiata intrigante, sicuramente dotta ma anche arguta e lieve, attraverso i sentieri impervi - almeno così riteniamo - degli autori classici che così tanto ci spaventano. Che ci figuriamo impegnativi, impolverati, là in alto sugli scaffali più irraggiungibili della libreria. Sbagliamo a pensarlo. Perché i Classici, spiega Lavia, parlano di noi e sono i soli che possono salvarci, unico antidoto al nostro mondo distorto. Hanno la capacità di scavare nel nostro profondo, ci mettono in crisi e ci costringono a fare i conti con noi stessi. Perciò, dice l'autore, bisogna conoscerli e scendere con loro giù al “Pireo”. «In ogni lettura classica c’è sempre una Moby Dick da cercare e da cui lasciarsi trascinare giù, nel profondo – scrive l'autore –. Non è cattiva quella balena, al contrario, è l’unica possibilità che Achab ha a disposizione per inabissarsi nel mistero di se stesso. Solo inseguendo il capodoglio nei flutti, il capitano (e con lui il lettore) potrà crescere e diventare più umano».

Con 55 anni di successi tra i teatri di tutto il mondo non avrebbe potuto essere più appagante scrivere un'autobiografia?

«Mi hanno proposto questo tema e non ho saputo dire di no. L'idea era quella di fare una chiacchierata senza troppo ordine, senza troppa preparazione. Non sono un professore né un saggista, semplicemente un teatrante. Ma senza tema di peccare di superbia sono un teatrante esperto: è difficile incontrare nel mondo del teatro qualcuno che ha detto a memoria “Amleto” per più di 650 sere, o l'“Edipo Re”, che ho letto come un breviario. Ho scritto il libro in due mesi, di getto, senza controllare le citazioni. Il pezzo su Kafka l'ho buttato giù in camerino mentre stavo recitando “L'uomo dal fiore in bocca”: è quello che mi piace di più, è più strano e raccontare “Metamorfosi” attraverso l'“Orestea” ha una sua ragione profonda».

Perché dobbiamo far pace con questi Classici, così ostici a volte, così distanti da noi?

«Che cosa fa riconoscere un classico? L'inizio della “Repubblica” di Platone. “Sono disceso giù al Pireo”, scrive. Si riferisce a questo andar giù, questo sprofondare verso un abisso che va verso l'orrore. Questo Pireo dell'anima, luogo infimo abitato dai peggiori, è il luogo di partenza per la fondazione dell'uomo nuovo. È la stessa ragione per cui Platone non va sull'Agorà di Atene ma scende, la stessa per cui Dio ha dovuto nascere in una capanna e frequentare storpi, assassini, puttane. La stessa ragione per cui Dostoevskij deve andare come un topo nel sottosuolo, Achab sprofondare, Eraclito farsi trovare in un letamaio, K. diventare l'ultimo scarafaggio di questo mondo».

Una caduta che però è elevazione.

«È la catabasi, la catarsi: solo con una grande caduta è possibile risollevarsi. Andare giù, nell'abisso, è necessario, è l'unico luogo in cui l'uomo si svela. Nel libro mi chiedo dov'è oggi il Pireo del mondo. Credo nelle favelas, o a Lampedusa. Giù tra gli ultimi, dove nascerebbe Cristo, dove andrebbe Socrate. Ma l'Occidente è caduto così in basso - anche oggi ho guardato il tg e me ne sono pentito - che non abbiamo ancora il talento, la forza e la poesia per capire che Lampedusa è la salvezza dell'Occidente. Ne sono convinto: lo so per fede nella poesia».

Accenna a una “deriva culturale” e a un tema attuale come l'“erigere muri” ma poi tira dritto. Perché ha deciso di non approfondire?

«Se le certezze, i fondamenti dell'uomo non ci sono più, allora si alzano muri, e i Classici sono i maestri che ci insegnano a saltarli o addirittura ad abbatterli. Ma non mi ci sono soffermato troppo perché, come detto, non volevo fare un saggio sociologico ma una chiacchierata frettolosa, spensierata».

È stato parco di esperienze personali ma non mancano episodi gustosi della sua vita. Come la prima grande delusione a teatro.

«L'ho dovuta contrarre moltissimo: se scriverò un'altra cosa racconterò di tutta la famiglia che va a vedere Gino Cervi a Palermo in bimotore. Catania era stata bombardata dagli americani, così come la linea ferroviaria. Mi ricordo lumi, candele, con luce e telefono spariti. Abbiamo dovuto lasciare la nostra casa: mi dicono che è uguale a quando ci abitavamo noi e ora c'è il ristorante più caratteristico di Catania, “La Siciliana”. Oggi non potrei tornarci, non avrei cuore. Mio padre volle comunque portare tutta la famiglia a teatro: poverino, credo si svenò. Fu terribile: non mi piacque nulla! Gli attori erano così piccoli, le luci così gialle: tutto così diverso dal meraviglioso libro che leggevo a casa».

Sostenendo che il teatro sia l'arte assoluta e pura la mette davanti a tutte le altre, cinema compreso. E dire che lei il cinema l'ha fatto, e con successo.

«Il cinema non è l'arte dell'attore: è l'arte dell'inquadratura e del montaggio. L'attore è un incidente. Chi mi piace? Mi vengono in mente Elio Germano, Tony Servillo. Il cinema in America è molto figlio del teatro a differenza che in Italia. Comunque, è una serie di inquadrature che hanno una certa luce, un certo movimento e che si montano in un certo modo: è un fatto tecnico, mentre il teatro è fisico. Ogni téchne è superata da un'altra téchne. Oggi il cinema è morto, ce n'è troppo e la gente al cinema non ci va più».

Anche il teatro non se la passa proprio bene. Il discorso che fa sulla messinscena è senza speranza.

«Siamo figli di un fenomeno culturale che è nato nel dopoguerra, di estrazione russo-francese, che si chiama regia e che è una depravazione del teatro. Oggi vado a vedere il “Re Lear” di Tizio Caio, una volta vedevo quello di Ermete Zacconi, o di Strehler. Questa “piccola” differenza ci fa notare come lo slittamento tra l'attore e il regista abbia cambiato il modo di accostarsi al teatro. Un modo sbagliato, perché in scena c'è l'attore e in platea il pubblico e ci devono essere in carne e ossa queste due figure. Se l'attore diventa il tramite del messaggio registico vuol dire che il teatro è morto. Che tipo di regista sono io? Pignolo, rigoroso, preciso. I miei spettacoli, riusciti o meno, sono tutti molto, molto e sottolineo molto rigorosi, come non vedo fare da nessuno in questo Paese. Ma è perché sono vecchio. I miei spettacoli, anche bruttissimi magari, hanno il rigore, questo sì! Ma non è merito mio, è la formazione: la grande fortuna è l'aver avuto grandi maestri».

Dipinge Strehler come un «grande scrittore che non scriveva con la penna ma con gli attori sulla scena».

«È il più grande. Devo tutto a lui come regista, e a Orazio Costa come attore. Non c'è altro regista che può sedersi al tavolo con Strehler, né in Italia né all'estero, almeno io non l'ho visto. Patrice Chéreau è stato un suo grande allievo, e si vede, sia nei film che nelle opere teatrali. Come nelle mie, si vede. Certo che ho una mia cifra personale, ma la formazione, la paideia è quella di Strehler: chi sa vedere, la vede».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo