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Per anni, di lui, sono rimaste nella memoria solo poche immagini. Sbiadite fotografie in cui Benjamín Mendoza y Amor, vestito da prete, provava ad accoltallare un uomo. Non uno qualunque, ma un Papa: Paolo VI. Che in quei giorni del novembre 1970 si trovava in visita pastorale a Manila, nelle Filippine. Atteso a braccia aperte da uno dei più feroci dittatori comparsi sulla scena, Ferdinand Marcos, e dalla sua capricciosa, terribile moglie Imelda.

Chi fosse davvero l’assassino mancato, non è mai importato a nessuno. Dimenticato in fretta come il pittore pazzo che aveva attentato alla vita del Santo Padre con un coltellaccio in mano, riusciva a liberarsi dall’oblio quando sbucava qualche rivelazione costruita con scopi ben precisi. Come quella che raccontava di un Paolo VI ferito, ma disposto a soffrire in silenzio per non turbare il cerimoniale della visita pastorale nelle Filippine. O quella inventava il ruolo di un Paul Marcinkus, il potente cardinale a lungo chiacchierato capo dello Ior, pronto a fare scudo con il proprio corpo alla fragile figura del Papa.

Un personaggio così sfocato non poteva certo attirare l’attenzione di uno scrittore ormai affermato. Di un cacciatore di storie come Sergio Campailla che ha saputo rimettere bene a fuoco la vita e l’opera del filosofo goriziano Carlo Michelstaedter. Invece, per caso, l’autore di “Far di se stesso fiamma”, “Il segreto di Nadia B.”, si è trovato a seguire con spasmodica curiosità, e la consueta, maniacale precisione, le tracce perdute di Benjamin Mendoza y Amor.

Un’amica che non vedeva da anni, mentre si trovava in viaggio in America, gli aveva raccontato di uno strano personaggio vissuto nel magazzino della casa del padre in pieno centro a Roma. Un tipo sfuggente, capitato lì probabilmente in subaffitto, svanito all’improvviso lasciando dietro di sé tre valigie piene. Non bagagli qualunque, ma una miniera di disegni strani. Fantasie anarchiche che rappresentavano l’umanità in catene, surreali nudi di donna, figure umane e animali delle Ande.

Campailla non è uno scrittore che si emoziona facilmente. Il libro su Nadia, contrastato amore di Michelstadter che si era tolta la vita inscenando un plateale suicidio, «lo avevo scritto quasi quarant’anni dopo l’iniziale suggestione». E non bastava scoprire che quello strano pittore fantasma rispondeva al nome di Benjamin Mendoza. Sì, proprio lui, il finto prete che s’era lanciato nell’assurdo tentativo di acoltellare Papa Paolo VI.

Ma guardare quei disegni, capire che erano rimasti lì, nascosti, invisibili, quasi aspettassero lui, ha fatto crollare piano piano la diffidenza di Campailla. E poi, tutto sommato, in quelle valigie non c’erano misere croste, balbettantri tentativi di un dilettante qualunque. Ma visioni apocalittiche, suggestioni surrealiste di un artista vero. Che andavano ricostruite, raccontate in un libro straordinario, nato dopoo lunghe, minuziose e complicatissime ricerche: “Wanted”, pubblicato da Marsilio (pagg. 359, euro 20).

Mendoza non era un matto come si è cercato sempre di far credere. Figlio di una donna costretta a industriarsi, e a prostituirsi, per sopperire alla mancanza di un marito evanescente, dotato della prodiugiosa caopacità dsi disegnare indifferentemente con la mano sinistra e con la destra, prima di arrivare all’idea di attentare alla vita del Papa, si era fatto un discreto nome nel mondo dell’arte come pittore e ritrattista. Fino a incrociare il suo percorso con personaggi ormai leggendari, come la mannequin argentina Kouka Denis. Una delle muse di Yves Saint Laurent, che conservava il ritratto firmato da Mendoza tra le sue cose più care.

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