Le identità di Rebula nella Peonia del Carso
La Nave di Teseo ripubblica il romanzo

“L
a peonia del Carso”
di
Alojz Rebula
, ora ripubblicato dalla
Nave di Teseo (pagg. 328, euro 20,00)
, è un romanzo ancora attuale, seppur ambientato negli anni in cui il fascismo vittorioso cercava di cancellare l'identità slovena e croata nelle terre italiane da poco acquisite d'Istria e Dalmazia. Racconta dell'inadeguatezza della politica quando questa, per assecondare i propri obiettivi, calpesta le creature umane.
Se su questa parte d'Europa il discorso può considerarsi superato, in molti altri luoghi della terra la situazione è tutt'altro che risolta. Ed è il motivo per cui sembra utile rileggere un testo che ha una partenza quasi da romanzo di spionaggio, con l'invio da Firenze a Trieste di un ingegnere elettronico, l'ebreo Amos Borsi. Costui ha il compito di sorvegliare i dissidenti sloveni ma, nell'eseguire puntualmente l'ordine, incontra Stanko Križnik lo studente con cui si trova a condividere l’amore per la natura, la bellezza, la poesia. E così il romanzo acquista subito una dimensione ampia, epico-lirica. Poco importa che nel giovane sloveno si riconoscano alcuni tratti di Srečko Kosovel, così come dall’ingegnere trapeli qualcosa di Carlo Curcio, l’intellettuale napoletano che, come Borsi, era rimasto affascinato dalla sorella del poeta, Karmela, splendida pianista. L’incontro con una realtà diversa da quella immaginata, la ricerca dell’ideale femminile e la scoperta di una cultura sconosciuta, porteranno Amos a interrogarsi nel profondo sulle ragioni e i sentimenti di ribellione dei giovani antifascisti sloveni. Superfluo dire quale destino lo attenderà qualche anno dopo.
Scritto dopo la caduta del muro di Berlino, “La peonia del Carso” mostra come vincitori e vinti, malgrado tutti gli sforzi, vengano comunque prima o poi stritolati dalla storia. Non invoca tolleranza, atteggiamento che può nascondere risvolti paternalistici a volte fastidiosi, né chiede attenzione verso presunte ingiustizie nei confronti di un popolo giovane e numericamente debole.
Rebula pone sul tappeto una questione che parte dalla storia per poterla trascendere, mostrando la grandezza, e le difficoltà, di un percorso di redenzione, lungo il quale l’individuo impara a considerarsi quale parte di un tutto molto più ampio del microcosmo familiare, o anche del gruppo di appartenenza. Tocca ovviamente al poeta comunicarlo al lettore, dopo che dalla grotta, ventre della madre terra, e luogo dove i congiurati si erano ritrovati per rinascere a una nuova identità ideologica, pareva emergere una prima indicazione internazionalista, contro l’imperialismo linguistico del «qui si parla soltanto italiano». Il cambiamento sembrerebbe positivo, dal momento che la nuova parola d’ordine potrebbe essere: «Qui si parla solo umano». È una considerazione generosa, ma insufficiente agli occhi di Rebula: per cambiare davvero non basta marcare, per poi annullare, la differenza tra servi e padroni, italiani o sloveni che siano: nella contrapposizione socioeconomica tra i due gruppi permane un elemento comune, più importante del potere economico che si può esercitare all’esterno, e cioè la propria pochezza intima di fronte al mistero, avvertito dal poeta più che mai in quella notte dove fuori splendono le stelle. Il passo successivo è dunque: «Qui si parla il linguaggio dell’eterno». È il mistero della vita e della morte ad unificare servi e padroni, siano essi italiani e sloveni, ché tutti avvertono «il presagio di una qualche mancanza».
Rebula non considera negativamente il limite della conoscenza razionale, tanto da rilanciare un messaggio propositivo costruito su un altro linguaggio, quello dell’amore: questo, a differenza della grammatica e della sintassi del potere, riesce a trasformare l’individuo in una persona. L’influenza del filosofo cattolico Jacques Maritain è palese: solo quando l’individuo diventa persona, dunque sintesi di materia e spirito, può sentirsi libero di realizzare fini superiori, perseguendo il bene comune. La tensione verso un ideale spirituale, che evidentemente è una dura conquista, porta Rebula innanzi all’unica vera grande domanda, del perché della sofferenza e della morte, che non sono da lui considerate esperienze negative, se aiutano, anche solo per un momento, a scostare il velo su una verità altrimenti indimostrabile.
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