Le immagini di Sillani con protagonista il Carso ispirate a Messiaen

Nello spazio monumentale dell’Itis fino al 22 marzo foto che esprimono l’asperità e la bellezza della natura

il percorso



Il “Quartetto per la fine del tempo” di Olivier Messiaen venne eseguito per la prima volta il 15 gennaio 1941, allo Stalag VIIIA di Görlitz, un campo di prigionia nazista, in Slesia. Messiaen l’aveva composto lì, dove era stato condotto prigioniero l’anno prima, in seguito alla sua cattura a Verdun. L'ufficiale responsabile del campo, appassionato di musica, aveva concesso al compositore francese di lavorare per realizzare un concerto. Messiaen scrisse il Quartetto per tre musicisti che condividevano con lui la prigionia, un violoncellista, un violinista e un clarinettista, cui si aggiunse egli stesso al pianoforte. Strutturato in 8 movimenti è dedicato all'Apocalisse e si apre con una citazione dal testo di San Giovanni; il tema del tempo viene affrontato dal punto di vista religioso, filosofico e tecnico-musicale.

Amando ascoltare musica alla radio, Mario Sillani Djerrahian un giorno si è imbattuto in questa composizione. Affascinato dai suoni, scoperta l’incredibile storia a essi legata, ha voluto fare sua la musica, reinterpretandola con il mezzo espressivo che gli è proprio: la fotografia.

È nata così “La fine del tempo”, la mostra dell’artista triestino di origini armene attualmente allestita negli spazi dell’atrio monumentale dell’Itis di via Pascoli, a Trieste.

Dallo studio delle annotazioni e dalle riflessioni del compositore francese, Sillani ha tratto spunto per riconsiderare il proprio lavoro alla luce del suo stare al mondo, in ragione del suo essere e del suo esserci. Ha volto la religiosità di Messiaen in immanenza, mutato il pensiero in immagine, il suono in visione, rifuggendo dalla descrizione, operando per analogia. Così se l’ispirazione per Messiaen sta nelle Sacre Scritture, per Sillani sta nel paesaggio carsico, il solo a suggerirgli un senso di appartenenza, un’idea di identità vera, profonda, assoluta, da sempre.

L’artista triestino ha recuperato alcune immagini dei suoi lavori passati, esattamente come il compositore francese aveva recuperato qualche frase musicale da altre, precedenti sue composizioni. Ed è anche perciò che, come nota Riccardo Caldura, curatore della mostra, «quest’ultimo lavoro di Mario Sillani Djerrahian richiama nel titolo, come un gioco di specchi, una serie della fine degli anni Novanta: “Dove comincia il paesaggio” Una sorta di circolarità che si rinnova ogni volta che viene osservato quanto vi è intorno». Quell’intorno, come nota pure Caldura, è appunto la natura, il Carso, protagonista di quella serie di scatti della fine degli anni Novanta e di questa, dove viene indagato nella sua asperità, nella sua durezza ma anche nella sua bellezza e nei suoi aspetti più nascosti, con laica devozione.

Gli otto movimenti de “La fine del tempo” di Sillani reinterpretano il senso dell’infinito, il desiderio di luce, di arcobaleni, di canti gioiosi evocati nelle parole e nei suoni di Messiaen. Là dove la musica intende ricordare l’armonioso silenzio del Paradiso, l’immagine del paesaggio fatto di sola luce e colore, per effetto della tecnica di massima sfocatura, suggerisce l’idea della fine del mondo nella fusione entropica della materia. E là dove il violoncello con il suo procedere lento evoca il Verbo maestoso e potente verso l’eternità, la visione astratta della roccia carsica si impone nella sua grandiosità e nella sua ineludibilità, come i paesaggi montani, al limite del ghiacciaio, ai confini del mondo. Il riflesso del cielo nell’acqua di uno stagno, frammenti di natura galleggiante, licheni meravigliosamente colorati su pietre lungo il fiume giungono quindi a comporre una sinfonia di luci e colori dove silenzio e musica coincidono. Come negativo e positivo, il bianco e il nero, i segni sulla sabbia bagnata, per arrivare ad esprimere il proprio paradiso: «la collina dietro casa – ci dice Sillani - il mio modo di essere reale». La mostra sarà visitabile fino al 22 marzo.



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