Le mani buone di Lorenzo Quinn
Lo scultore figlio dell’attore Anthony a Venezia: «Siamo responsabili del pianeta»

Incontriamo Lorenzo Quinn nella splendida terrazza dell’Hotel Ca’ Sagredo, alle nostre spalle le grandi mani candide che, emergendo dall’acqua del Canal Grande, sorreggono il palazzo nobiliare. L’installazione intitolata “Support” è forse l’opera più fotografata in questo periodo in cui Venezia è capitale dell’arte, benché sia stata esclusa dalla Biennale 2017: sfilano sui canali barche affollatissime e un’infinità di gente si sporge per immortalare un monumento alla fragilità della Serenissima e in senso lato alla precarietà del pianeta, sfruttato da mani molto meno generose di quelle dell’artista.
Lorenzo Quinn, figlio dell’attore Anthony Quinn e della costumista veneziana Jolanda Addolori, sposato con una veneziana, sorride orgoglioso del suo omaggio a una città molto amata. L’occasione per conoscerlo è data dalla sua partecipazione all'evento "Feeling Food in Art", una tavola rotonda sui temi dell'arte e del cibo organizzata per aiutare la fondazione Eat For Africa anche attraverso un’asta benefica per la quale l’artista ha donato l’opera “New Identity” perché, spiega: «Ci sono tantissime organizzazioni a cui vorrei dare il mio sostegno e mi piange il cuore perché è impossibile aiutare tutti».
Diciamo che lei, fuor di metafora, si è impegnato a dare una mano, anzi due, alla causa dell’ambiente: cosa ne pensa della decisione di Trump di uscire dagli accordi di Parigi?
«Io - risponde Lorenzo Quinn - non parlo mai di politica, sono un’artista, queste sono le mie immagini e la gente può trarne delle conclusioni, però sono molto preoccupato per il futuro; le mani di “Support” sono di mio figlio Anthony di undici anni, dobbiamo pensare ai nostri figli, esiste una coscienza collettiva che può portarci a fare grandi cose ma dobbiamo farle, le mani creano, le mani possono distruggere».
Lei utilizza spesso le mani nelle sue opere, come mai?
«Le mani comunicano attraverso un linguaggio comprensibile a tutti, senza barriere di razza, cultura o genere. La prossima settimana arriverà in Riva degli Schiavoni, un’altra mia scultura intitolata “Stop Playing”. Si tratta di un’opera che nasce da un ricordo d’infanzia: i miei genitori erano in viaggio e io ero rimasto nella villa in campagna, poiché mio padre non voleva inferriate alle finestre, aveva fatto installare dei vetri antiproiettile, io presi una fionda e una pallina del flipper per giocare con gli amici ma i vetri non hanno retto. Ecco, la mia prossima installazione a Venezia si ispira a questo episodio lontano per dire: basta giocare con il mondo».
Nel Padiglione Italia, anche l’opera di Giorgio Andreotta Calò “Senza titolo (La fine del mondo)” allude a una Venezia sommersa, ma in modo più laterale e onirico. I suoi lavori, invece, sono molto espliciti pur senza essere smaccatamente provocatori.
«L’immediatezza per me è molto importante, è come scrivere un libro, che senso ha pubblicarlo se nessuno può capirlo? Attraverso le mie opere voglio veicolare un messaggio, ho bisogno di dialogare con il pubblico. Non mi interessa provocare, io cerco l’unione, non la separazione, sono sempre ottimista, c’è già abbastanza odio nel mondo».
Lei ha dichiarato che il punto di partenza dei suoi progetti è sempre la parola, ed è atipico per uno scultore. Quali sono i suoi riferimenti?
«L’arte non è quello che vedi ma quello che senti quando lo vedi. Io scrivo molto tutti i giorni, la scultura è la descrizione di ciò che scrivo, non cerco di dare spiegazioni a un lavoro dopo averlo creato ma al contrario, di dare un’immagine a ciò che ho pensato. Scrittori e filosofi per me sono molto importanti, da Cartesio a Eric Fromm, ad esempio».
Quale sarà, allora, il prossimo capitolo della storia di “Support”, dopo il 26 novembre?
«Ho già ricevuto moltissime richieste da parte di città e organizzazioni, dall’Onu a Save The Planet a Greenpeace, ma io vorrei collocarla nell’Artico, all’origine del problema: le mani sostengono il ghiaccio ma poi finiscono con il sorreggere il nulla».
Proviamo un’ultima domanda, che a partire da “Support” interpreta il sentimento di tanti veneziani: potrebbe fare una mano che sposta le grandi navi dal cuore di Venezia? Lorenzo Quinn, pur dichiarandosi molto triste per i maltrattamenti inflitti a Venezia, glissa sulla proposta, ma confessa di aver già un’idea per la prossima Biennale. Top secret, però.
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