Legare chi soffre di disagio psichico Un libro riaccende il confronto

“La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene” scrive Paolo Milone nel suo libro “L’arte di legare le persone” (Einaudi pp. 200, euro 18,50), che l’autore presenterà domani alle 18 sui canali social della libreria Ubik. Milone è uno psichiatra e quando dice noi sta parlando di medici, quelli che stanno dall’altra parte della scrivania. Loro invece sono le persone che entrano in un reparto psichiatrico.
Raccontare l’esperienza della malattia mentale non è facile, ci hanno provato scrittori ed esperti andando incontro a rischi e precipizi. «Quando ti metti a raccontare l’altro stai già superando un limite, devi avere una ragione che dà senso a te e a lui. Da psichiatra, il rischio di rendere oggetto l’altro è sempre in agguato» dice cauto Peppe Dell’Acqua, uno degli eredi di Basaglia. Milone può contare su una solida esperienza clinica e su una chiara scelta stilistica. «Ho pensato che l’approccio poetico potesse essere quello migliore - spiega - perché la poesia ha un valore conoscitivo ma sa anche lenire. la sofferenza».
La scrittura magnetica di Milone prende il lettore per mano e gli fa attraversare, non senza diversi scossoni, le tensioni e le contraddizioni che si respirano nei corridoi di un reparto di psichiatria. Prima tra tutte quella che investe la parola: il libro si apre con un giovane psichiatra alla ricerca di una stanza per colloquiare con i pazienti, ma nelle ultime pagine lo stesso psichiatra afferma lo scacco della parola davanti ai soggetti più gravi. «C’è una tensione che non si risolve» spiega Milone. «Da un lato c’è il bisogno fondamentale dello psichiatra di trovare un modo e uno spazio per parlare, e contemporaneamente c’è la sensazione che sia una cosa davvero difficile. Non bisogna pensare che si possa parlare sempre con i pazienti. Dire che si può parlare nella psicosi, ad esempio, è una visione positivista che non esiste nella realtà. Non tutto è calmabile con le parole. Però bisogna sempre fare uno sforzo».
Su posizioni opposte è Peppe Dell’Acqua: «È proprio nel punto estremo del dolore, in cui la persona con un disturbo mentale appare irraggiungibile, che è necessaria la parola, perché in quel punto la persona ha maggiormente bisogno di essere ascoltata, compresa. Devo allora sforzarmi di com-prendere, cioè di mettermi in una posizione che sia vicina e lontana. Una dimensione che non è mai certa».
Quando la parola manca per Milone non è un tabù ricorre alla contenzione, la pratica da cui pareva averci liberato la riforma basagliana, insegnandoci che legare una persona significa porre una distanza abissale tra te e l’altro, impedendo alla persona legata qualsiasi movimento, non solo fisico. Nonostante abbia dato al proprio libro un titolo provocatorio, Milone smorza i toni: «La cultura del legare in psichiatria si è persa. C’è una questione banalissima, se tu vuoi legare devi mantenerti in esercizio, e se leghi una volta al mese o ogni quindici giorni non lo puoi fare bene».
Per Dell’Acqua invece: «Legare è un crimine, è un sopruso. Ci sono le linee guida del Ministero, dell’Oms che ti dicono che bisogna fare di tutto per evitare la contenzione. Per non legare bisogna avere dei servizi, andare a casa della gente, arrivare prima della crisi, prima che arrivino i carabinieri. Certo alle volte i carabinieri arrivano, e le persone vengono portate in Diagnosi e Cura, ma la parola deve essere e tu slegalo subito».
Cos’è rimasto della rivoluzione basagliana? Dell’Acqua sottolinea che la legge 180 non è solo la chiusura dei manicomi, ma piuttosto la restituzione ai matti invisibili e senza storia dei loro diritti di cittadini. «Penso che la rivoluzione sia stata smettere di identificare le persone con la loro malattia: gli schizofrenici, i depressi, gli psicopatici, i suicidi. Non è un problema di nomi, ma quei nomi sono definizioni che imprigionano, conseguenza di psichiatrie che rendono oggetto. Per questo trovo scandaloso quando vengano usati come se fossero privi di conseguenze». Milone, che pur nel libro non fa sconti ai “martiri di guerra per la legge 180”, sfuma la questione: «In Italia ci sono state due psichiatrie. Una basagliana che nasceva dai manicomi e partiva da una posizione positivista per la quale l’uomo, con la ragione e la lotta sociale, può rendere liberi i pazienti psichiatrici. E un’altra a-manicomiale, che partiva da esperienze tragiche più personali, attraversava percorsi universitari e arrivava agli ospedali o ai servizi psichiatrici, dove legare era un problema simbolico. Per la prima impostazione non legare è un fatto fondativo, per la seconda l’essenziale è confrontarsi con la psicosi».
Sotto la lente dell’esperienza triestina il libro di Milone si apre però a molti altri interrogativi: È vero che il corpo a corpo tra medico e paziente è importante? O il corpo a corpo deve essere riservato alla diagnosi, per metterla via e lasciare campo aperto all’ascolto e all’organizzazione della vita attorno al paziente? Cos’è in gioco quando parliamo di psichiatria? Contenzione e porte chiuse sono pratiche necessarie o atti che privano le persone della libertà e quindi della soggettività? La poesia può alle volte ingannare? —
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