Leone Magiera e von Karajan storia di un’amicizia leggendaria

Leone Magiera, per molti, è soltanto il primo marito di Mirella Freni, il grande soprano scomparso nel febbraio di quest’anno. Altri, lo ricordano anche per avere spesso accompagnato Luciano Pavarotti al piano o quale direttore d’orchestra nelle esibizioni del tenorissimo in giro per il mondo.
In pochi, invece, conoscevano la sua lunga collaborazione con Herbert von Karajan che costituisce un particolare non secondario della sua lunga attività. A colmare questa lacuna ci pensa un libro che Magiera aveva scritto una quindicina di anni or sono e che, per ritrosia, a lungo aveva preferito tenere nel cassetto.
Alla fine, La nave di Teseo l’ha convinto alla pubblicazione e “Karajan” (pagg. 265, euro 18), uscito con prefazione proprio di Mirella Freni, permette di conoscere molti aspetti privati del leggendario maestro e di sovvertirne l’immagine austera, persino altezzosa, antipatica, che spesso si ha di lui.
Il sottotitolo “Ritratto inedito di un mito della musica” è quindi perfetto.
Magiera, a quando risale il primo contatto con Karajan?
«Mi ero sposato giovane con Mirella Freni: era cresciuta con me e con me aveva studiato. Mirella venne messa sotto contratto dalla Scala per una Bohème diretta da Karajan e alle prove, lui che mi aveva sentito suonare il piano per accompagnarla, si complimentò dicendomi che l’avevo preparata bene».
Com’è iniziata la collaborazione?
«Apprezzandomi come pianista e preparatore, mi invitò a Berlino, in tali vesti, per una registrazione del Sigfrido. Più tardi mi chiamò a Salisburgo, quale insegnante in una sua scuola di perfezionamento per cantanti, nell’ambito del festival estivo. C’erano artisti già affermati e altri alle prime armi. Karajan, infatti, ai giovani prestava grande attenzione: ne fece debuttare molti come Katia Ricciarelli, Josè Carreras, la stessa Freni e fu sempre lui a far esordire Pavarotti alla Scala».
Com’era il Karajan privato?
«Curioso di certe avventure capitate a musicisti e cantanti. Si meravigliava come alla Scala fossero così severi: la sua Traviata venne fischiata. Ma era amabile, cortese, persino simpatico. Amava le barzellette in italiano che si faceva raccontare dal baritono Rolando Panerai, di cui era molto amico. Incuteva rispetto, se non timore. Sapeva di essere il numero uno, ma non era superbo. Era esigente, ma non cattivo. In fondo, non aveva motivo per essere sgarbato: quando lo vedevano, tutti si mettevano sull’attenti».
Quando vi siete visti per l’ultima volta?
«In occasione del suo ultimo Don Giovanni, proprio a Salisburgo, dove io ero impegnato in un concerto con Pavarotti. Andammo a cena assieme. Camminava a fatica. Tentavo di alleggerirgli il morale. “Ormai per me è tutto finito” mi rispose».
L’amicizia con Karajan era rimasta, ma la vostra collaborazione si era interrotta.
«Carlos Kleiber, per una ripresa di Otello alla Scala, si lamentò di tutti i pianisti accompagnatori e l’allora sovrintendente, Carlo Maria Badini, mi pregò di collaborare alle prove dell’opera appunto quale pianista. Da allora sono quindi cominciati percorsi nuovi, anche quale dirigente di teatri».
Com’è andata con Kleiber?
«Karajan riportava la voce che fosse figlio di Alban Berg. I due erano molto diversi, ma legati da una stima profonda. Comunque, avvenne che il baritono Renato Bruson fu protestato da Kleiber per quell’Otello e lo rincorse tirandogli un pugno che colpì Placido Domingo, intervenuto per far da paciere. Nell’opera subentrò poi Piero Cappuccilli e io con Kleiber cominciai un rapporto che andò avanti a lungo. Certo, se Karajan era un autentico professionista, Kleiber era un carattere molto più difficile».
Tra i cantanti che lei ha accompagnato c’è proprio il triestino Cappuccilli…
«Per me è stato semplicemente il più grande baritono che ho ascoltato. Aveva una classe superiore. Era il Pavarotti dei baritoni. E so bene che era triestino. Del resto, mio padre era comandante dell’Arma Contraerea: veniva trasferito spesso e così, nel periodo della seconda guerra mondiale, fra Trieste, a cui son rimasto molto legato, e Monfalcone ho passato un annetto della mia fanciullezza». —
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