L’eroe di Farhadi nell’Iran dove la verità non esiste

Per Asghar Farhadi è sempre una “questione morale”. Un dilemma etico, una scelta dalla quale si innesca una parabola inesorabile che investe la vita stessa dei protagonisti dei suoi film. Si ricorderanno “Una separazione” o “Il cliente”, entrambi premi Oscar, persino le due meno riuscite parentesi produttive all’estero “Il passato” e “Tutti lo sanno”, e ora non fa eccezione “Un eroe”, che riporta il regista in patria per raccontare una storia sì universale, ma più che mai calata nella società iraniana, appesantita dalla burocrazia, rallentata nel processo di modernizzazione, retta troppo spesso su una doppia morale.
Rahim, separato, un figlio da accudire, è in prigione per aver contratto un debito che non può saldare, ma durante un permesso gli si presenta l’inattesa opportunità di risarcire il suo creditore per poter tornare finalmente alla vita. La nuova compagna Farkhondeh ha trovato, per caso, una borsa piena di monete. Tentato in un primo momento di salvarsi vendendo l’oro, asseconda invece la sua coscienza restituendo la borsa alla proprietaria. L’episodio non sfugge all’attenzione dei media che dipingono Rahim come un eroe, con soddisfazione dei dirigenti del penitenziario beneficiati nell’immagine pubblica messa in crisi da un recente caso di suicidio. Ma non tutto va come dovrebbe e dall’idolatria alla gogna il passo è breve. Il tentativo di riscatto di un uomo diventa così il pretesto per raccontare il tema più cruciale del presente: l’assenza di verità, annientata dalla narrazione. La verità, oggi, non esiste. E anche quando esiste, non importa a nessuno. —
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