L’estate dei Modena City Ramblers

Domani la storica formazione combat-folk suona al Parco della Spianata di Gradisca d’Isonzo
Domani alle 21.30 i Modena City Ramblers suonano al Parco della Spianata di Gradisca d’Isonzo, l’ingresso è gratuito. La storica formazione combat-folk presenta il recente album «Mani come rami, ai piedi radici», nuova avventura in studio che vanta la collaborazione degli americani Calexico nella ballata «Ghost Town», cantata in inglese e punto di approdo tra orizzonti morriconiani, celtici e tzigani.


Franco D’Aniello (flauti, tromba, sax e uilleann pipes, tra i fondatori della band nel 1991) racconta: «Ero appassionato del flauto fin da bambino, mi piacevano i Jethro Tull. Quando suoni uno strumento così hai la tua musica a portata di mano, io ho sempre con me un flauto, è un po’ come la coperta di Linus, mi dà sicurezza».


In curriculum anche una comparsa nel film di Martin Scorsese, “Gangs Of New York”, il celebre kolossal con Di Caprio.


«Il mio flauto si sente in due brani. Fare la comparsa è un vezzo, ma il fatto di averci anche suonato è una gran soddisfazione. È stata un’esperienza bellissima perché non ho mai visto una situazione così professionale, probabilmente non mi capiterà più. Cura dei dettagli, altissimo senso di professionalità: nella musica difficilmente succede, ci sono altri parametri, il cinema si sviluppa su vari piani (impianto visivo, musica, parola, recitazione…) mentre la musica è un po’ più orizzontale. Ogni volta che lo passano in tv è sempre emozionante».


Negli ultimi anni avete suonato spesso a Trieste e in regione.


«Avevo fatto il militare a Villa Opicina nell’83 e quindi conosco la zona, lo ricordo come un anno spensierato. Con i Modena per tanti anni non siamo venuti a Trieste e poi abbiamo recuperato, nel 2009 al Miela e poi varie volte a Borgo Grotta, abbiamo sempre fatto delle belle date lì, ricordo anche una serata molto bella vicino a Monfalcone».


A Gradisca che concerto portate?


«Una scaletta che passa attraverso tutte le fasi, pezzi nuovi mischiati a vecchi, i classici che non potremmo non fare, un concerto molto godibile, da ballare. In queste date estive ci stiamo divertendo molto e due ore scorrono via senza che te ne accorgi. Quando succede vuol dire che la scaletta è bella».


Il nuovo disco come sta andando?


«Le vendite ormai sono un dettaglio, se ne vendono sempre meno, i negozi chiudono, non esistono più i cd nelle autoradio delle macchine però la percezione che abbiamo del disco è molto positiva, è piaciuto e a noi interessa questo. Quando piace a noi, piace anche al pubblico e questo vale particolarmente per un gruppo come il nostro che fa del feeling e dell’empatia con il pubblico una cosa importantissima».


I Calexico?


«Una bellissima collaborazione, credo che le cose non nascano per caso. Li seguiamo da molti anni, ci piacciono tanto, per l’atteggiamento, per quello che scrivono, come si presentano dal vivo; li abbiamo conosciuti a Bologna e abbiamo chiesto se avevano voglia di essere nostri ospiti nel disco e abbiamo poi mandato una traccia da ascoltare. Per un po’ non si sono fatti sentire ma in realtà ci avevano già lavorato su. Quindi gli era piaciuto e si sono anche impegnati molto, ci hanno mandato delle cose bellissimei».


Si va dal respiro internazionale del pezzo con i Calexico, all’uso del dialetto.


«So che a Trieste parlate quasi esclusivamente il dialetto. Noi mischiamo le carte, dobbiamo prendere atto che non c’è più una divisione fra le lingue; ci stiamo contaminando tantissimo, bisogna mantenere le tradizioni mescolandole, la lingua non è un giardino da preservare col filo spinato. Abbiamo mescolato il dialetto con lo spagnolo, con l’inglese, senza dargli connotazione di proprietà privata che non deve essere invasa. La lingua è viva».


La festa del concerto e l’impegno sociale. Come si uniscono?


«Nella band siamo tanti, con tanti punti di vista. Ci prendiamo sul serio, non con seriosità. Non saliamo sul palco a fare proclami. Evitiamo la pomposità che certi avevano negli anni ’60, all’epoca potevano farlo perché il momento storico era diverso. Cerchiamo di affrontare le cose con leggerezza ma coi piedi piantati per terra, parlando anche di cose serie ma senza annoiare. Diciamo quello che pensiamo, facciamo domande, cerchiamo di capire come va il mondo, però non diamo ricette».


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