L’impossibile felicità di Federico Tavan urlata con voce fioca

di DANILO DE MARCO
Esce la settimana prossima, pubblicato da Forum/Editrice Universitaria udinese e dal Circolo culturale Menocchio con il contributo del Comune di Maniago, "Mi è capitato" la brevissima autobiografia inedita del poeta Federico Tavan.
La pubblicazione è composta dal diario e dai testi "Le vie buie" scritti durante gli anni ’80. L'infanzia, la scuola, le esperienze del lavoro, il distacco dalla madre e i precoci ricoveri nelle strutture psichiatriche. Come sfondo Andreis, il paese di Tavan. Assieme a cinque liriche inedite, foto e documenti. Il tutto tenuto da Aldo Colonnello (sua la postfazione) nel suo forziere/cassetto senza chiave fino a oggi. La prefazione è di Paolo Medeossi, che negli ultimi anni è stata una delle persone più vicine a Federico.
"Mi è capitato" è scritto in uno stile scarno e diretto, estremamente minimalista sia per la sua brevità che l'essenzialità del dire. La forza che esce da queste righe, senza alcuna mediazione e nessun pudore anche per le cose più intime della sua vita ci riporta, almeno per chi Federico lo ha incontrato anche solo per pochi minuti, direttamente al suo corpo e la sua voce. Federico era corpo: abbracci infiniti. E voce urlante (gosa). L'emozione dell'incontro trasformava Federico in una vera e propria grondaia umana. Stati dell'animo che rivelavano con estrema chiarezza il grande desiderio... ma anche l'incapacità di vivere a fondo quel desiderio.
Estrema e passionale voglia di vivere che non portava con se più nulla di minimalista. All'incontrario. Il suo io si dilatava e si contraeva come una medusa. Impossibile trattenere quelle sue compulsioni. Ansia, pena e sofferenza si mescolavano all'ironia e feroce autoironia fino a raggiungere vette di autosarcasmo inimmaginabili. L'oggetto del desiderio, una vita normale con felicità normali, gli erano state precluse da sempre, ancora prima di nascere. Quasi a indicarci che il desiderio di felicità che vive nel cuore degli uomini è una vetta irraggiungibile per l'umano e solo la capacità di mediazione tra il tutto e il nulla, e qui il desiderio è inconsolabile, riesce a farci veramente soffrire di meno.
Mediare il dolore voleva anche dire però perdere quella impressionabilità, quel essere a pelle nuda verso le cose del mondo che solo i veri poeti hanno: «A me piaceva Leopardi, e chi altro poteva piacermi?», condizione assoluta per continuare a esistere tra le quinte del teatro quotidiano.
Su di lui c'erano aspettative in famiglia, e che aspettative, dopo che Giacomina, da tutti reputata la "strega" (da quelle parti, nella stretta gola della Val Cellina, nel 1643 furono contate 32 indemoniate) entrando all'improvviso nella chiesa di Andreis, urla ripetutamente a Cosetta, madre di Federico incinta di lui di quattro mesi, mentre pregava alla Madonna, «vedrai vedrai cosa nascerà... un mostro». Insomma, Federico ancor prima di nascere si era già beccato un vero e proprio malocchio. Cosetta sviene e viene portata a braccia a casa. Federico scalcia. Si ribalta e si rivolta nel ventre della madre. Ma poi nasce ugualmente. Altrimenti «io sarei un aborto di poeta». Ecco il fato che si materializza, che guida gli eventi secondo un ordine non modificabile. E Federico non può deludere tutte quelle aspettative: «Niente di clamoroso se nella pancia non ci fossi stato io. Non potevo deludere... Ecce Mostrum».
Poi l'infanzia (l'amata madre lo lascia troppo presto a 11 anni) accompagnata da ossessioni e solitudini. A 14 anni, prime esperienze all'ospedale psichiatrico e scrive “Anc jo 'e ven jù” (Anche io vengo giù), poesia che ricorda il racconto della nonna Fany su quell'incontro della figlia in Chiesa. Federico intuisce e capisce che non c'è nulla da fare. La sua strada è già segnata.
Federico cresce segnato da difficoltà psichiche, superstizioni, deliri e paure. I suoi demoni lo invadono risucchiandolo in un'insignificanza infinita. È a pelle nuda, senza autodifese di fronte al mondo. Convivere con gli obblighi imposti dalla società è sempre più improbabile. Già a scuola viene castigato troppo spesso perché «ero lo zimbello, il complessato, il diverso... e continuavo a grattarmi». Poi in collegio al Don Bosco di Pordenone - «il collegio di quel Santo di Don Bosco, roba da ricchi nel '62... e i preti 37 aguzzini... Un esercito. Scodinzolante in nero» - luogo che per Federico si trasforma in un vero e proprio lager. Il padre si vergognava di quel figlio, e fa carte false per obbligarlo al servizio di leva. Viene esonerato dopo alcuni mesi perché bacia o viene baciato in bocca, ancora non sono stati chiariti i fatti, il suo capitano.
Inizia a lavorare ma solo a momenti, tra ricoveri e vita normale. A Milano, in un magazzino di tessuti all'ingrosso, spedisce le cose dalla parte sbagliata del mondo. Alla catena di montaggio della Rex sembra un sabotatore agguerrito. Ma era solo distratto. Lo allontanano. Ogni suo tentativo di socializzare - a modo suo - viene vanificato, brutalmente castrato.
Ego-eccentrico fino all'osso (sulla sua porta di casa inciso in un legno un “Qui dorme lui in bell'evidenza”) per salvarsi da un suicidio a portata di mano, gli resta solo la possibilità d'amore «me stesso da amare» e una poesia d'amore che prende a pugni il nulla parlando «de monades/e de me». Riuscendo così a esprimere attraverso una poesia tempestosa una condizione di profonda perturbazione congiunta ad un'estrema necessità di felicità semplici: «Se fos normal / e sunarés / duté li cjampanes...E po' via / pa' chî prâtz / a deventâ / flours / âs / e / la meil». (Se fossi normale / suonerei tutte le campane. E poi via per i prati a diventare fiori, api e miele).
Bestemmiatoria preghiera, il grido di Federico è quello di una generazione, la sua, che lui sente ripudiata e da cui si sente ulteriormente respinto: «Je suis Antonin Arteaud / mais j'ai toujours souffert des hommes, / plus exactement de la société». «E la schifosa jena che è dentro di voi ride ride ride», emarginato anche dagli emarginati: «Dalla vita ho avuto solo MERDA».
Nonostante abbia messo tutta la sua volontà per liberarsi dalla sofferenza e vivere il mondo, in quella merda che dice essere la sua vita, trova anche il momento della quiete: «Eppure, se ci penso bene, senza ipocrisie e senza infingimenti, sto passando uno dei più bei momenti della mia vita, sono molto sereno, forse mi manca solo un grammo, per essere felice, ma un grammo è tanto». Per Federico si tratta di farsi vivere e di sopravvivere al male fatto (il venire al mondo) tra quello che è il «mal fatto» e quello che fa male. E quello che fa ancora più male, poi venuti al mondo, è vivere di uno struggente desiderio d'amore.
In uno scoppio di riso doloroso dove ogni incantesimo è diventato vacuo e inutile dice: «Il poeta è morto... non scrivo più... ma di cosa dovrei scrivere oggi che ci hanno tolto anche le fate... di telefonini forse?». Allora il poeta/bambino: «Io avevo sei anni... vecchio anarchico bambino» di cui scrive nelle sue lettere, allegramente disperato, attore di sé stesso, che da sempre solidarizza con i perdenti, lui stesso eterno perdente, cerca di rinascere, e lancia attraverso alcune delle sue poesie come in "Son qua (ancora per poco)" il suo atto d'accusa contro «l'immondo». Atto d'accusa colmo di ironia e di amara derisione che, quasi prevedendo il silenzio prossimo, diventa anche testamento poetico/ politico.
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