L’incontro impossibile tra Joyce e Schiele all’insegna della libertà

Renzo S. Crivelli immagina nel testo teatrale “Egon&Jim” un dialogo tra l’autore dell’«Ulisse» e l’artista viennese
Di Edoardo Marchi
sterle trieste prof crivelli
sterle trieste prof crivelli

di EDOARDO MARCHI

Egon Schiele che a Vienna è trattato come un pornografo. James Joyce che non riesce a pubblicare “Gente di Dublino” perché quel libro viene considerato osceno. Due artisti grandissimi, che si ritrovano a Trieste quasi per caso. È questo lo spunto di partenza di “Egon&Jim”, il testo teatrale scritto da Renzo S. Crivelli. Andrà in scena nell'ambito della celebrazione di "Bloomsday 2016", la rassegna organizzata dal Comune di Trieste con l’Università, in una duplice rappresentazione: domani all'Auditorium del Museo Revoltella, in via Diaz, alle 17 e in replica alle 21. In scena Giacomo Segulia, Francesco Godina e Enza De Rose, che firmano anche la regia. Costumi di Rossella Plaino, luci di Bruno Gustini, fonico Francesco Orrendo

Renzo S. Crivelli, ordinario di Letteratura inglese all’Università di Trieste, studioso di Joyce e autore di numerosi saggi, firma della “Domenica” del “Sole 24 Ore”, completa con questo “Egon&Jim” una sorta di ideale trilogia joyciana.

Un altro testo su Joyce e Trieste, dopo “Nora Joyce: l'altro monologo” e “Il Maestro e Cicogno”. Rientra in un particolare progetto?

«Sì, è l'ultimo testo di una trilogia pensata anni fa con il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia - spiega Renzo S. Crivelli -. Un accordo con l'allora direttore Antonio Calenda e il presidente Miloš Budin, che prevedeva tre messe in scena dedicate al grande scrittore dublinese che a Trieste trascorse undici anni della sua vita, quelli più formativi. “Nora Joyce: l'altro monologo” è andato in scena nel 2004 con la regia di Marko Sosi›. “Il Maestro e Cicogno” nel 2007 con ben 17 repliche firmato dal regista Manuel Giliberti».

Uscirà anche il libro?

«“Egon&Jim”, dopo che la collaborazione fra lo Stabile e la cattedra di Letteratura inglese dell'Università si è attenuata, è ora rappresentato dal Teatro Stabile di Trieste/La Contrada. Il progetto si concluderà a settembre, con la pubblicazione dei miei testi a cura della MgsPress nel volume “Joyce a teatro: Trilogia triestina”, con prefazione di Antonio Calenda e postfazione/intervista di Claudio Magris».

In “Egon&Jim” Egon Schiele viene fatto interagire con James Joyce?

«Nel testo ipotizzo un fortuito incontro fra questi due grandi artisti nella giornata del 14 maggio 1912, sul Molo San Carlo, come si chiamava allora il Molo Audace. È una cosa plausibile, dato che entrambi in quel periodo sono a Trieste: Joyce abita in Via Barriera Vecchia 32 e Schiele alloggia all'Hotel Palace Excelsior, a pochi passi dalle Rive».

Schiele era già stato a Trieste?

«Il pittore viennese si trovava a Trieste per la seconda volta. C'era già stato cinque anni prima in fuga con la sorella Gerti. Nella pièce sta dipingendo vedute coloratissime del porto. A quel tempo, i paesaggi di Trieste si vendevano benissimo a Vienna. È stato scarcerato da poche settimane, dopo essere finito dietro le sbarre con l'accusa, non provata, di aver sedotto una quattordicenne. Ma la vera ragione, però, è che la polizia austriaca ha trovato nella sua abitazione di Neulengbach disegni definiti osceni, fatti prontamente distruggere dal giudice accusatore».

E Joyce a che punto è del suo soggiorno triestino?

«Nello stesso periodo Joyce è a Trieste già da otto anni. Sta vivendo lo stesso ostracismo a causa della censura irlandese che, con l'accusa di oscenità, gli impedisce la pubblicazione di “Gente di Dublino”. Il suo approccio alla dimensione femminile e alle possibilità di ritrarre la sessualità della donna in termini psicologicamente reali è, curiosamente, molto affine a quello di Schiele. Tra i due, che sono molto giovani entrambi, c'è un'affinità trasgressiva assai forte».

Dunque hanno molto in comune?

«Innanzitutto lo stesso disgusto nei confronti di una società perbenista che utilizza la censura a fini politici. Il paragone va direttamente alla Vienna decadente che non può permettersi alcuna forma di destabilizzazione ideologica e alla Dublino "parrocchiale", in cui il bigottismo religioso detta legge ed è artefice di quell'immobilismo culturale da cui lo scrittore irlandese è fuggito a gambe levate, divenendo esule volontario».

E poi?

«Notiamo nei due artisti la medesima propensione ad oltrepassare la barriera formale della descrizione della donna, scavandone la complessa psicologia, sino a mostrarne, anche in modo irriverente, il corpo palpitante. Sia Joyce che Egon, infatti, "scavano" quel corpo senza finzioni e cautele: ne fanno l'oggetto trasgressivo di un'irriverente indagine sia psicologica che fisica, anche a prezzo di uno spietato realismo espressivo».

L’arte incontra la pornografia?

«Il punto è quello. Essenzialmente il rapporto fra arte e pornografia, dato che incarnano le recenti istanze degli studi freudiani sulla sessualità femminile mediati dalla propaggine triestina dell'allievo Edoardo Weiss, e la loro trasposizione in campo artistico. Ovvero, in quello della pittura e della scrittura, anche se Joyce sa ben coinvolgere contemporaneamente i livelli letterari, pittorici e musicali nei suoi testi sperimentali. Questi sono gli argomenti che affrontano i due artisti, scambiandosi impressioni e una sorta di solidarietà».

Ma chi ci sarà in palcoscenico?

«A parte Joyce e Schiele, in scena troveremo il giudice del Tribunale di Vienna che ha appena condannato l’artista. E una delle sue più conturbanti modelle, Wally Neuzil, la "rossa dagli occhi verdi", come la chiama Egon. È lei, oltre a un Narratore, a coordinare il dialogo fra lo scrittore e il pittore, riproducendo il punto di vista delle donne che ritraggono così profondamente: un punto di vista sospeso tra ciò che è sacro e ciò che è profano»

Un bel personaggio, questa Wally...

«Wally è testimone dell'episodio che ha condotto Egon in prigione e ci racconta l'angolo visuale della una donna che sa di essere osservata. Lei è, allo stesso tempo, la modella che riceve gli sguardi dell'artista e la donna che li accoglie, stabilendo una forma molto sottile di complicità tra chi osserva e chi è osservato. Una tematica antichissima».

Su tutta la pièce sembra aleggiare il fantasma della Grande guerra?

«È lo sfondo costante di questo dialogo, poiché a Vienna, come afferma Schiele, gli artisti percepiscono come ormai molto imminente lo scoppio del conflitto. E tendono a riprodurre, come fa anche Kokoschka, l'angoscia che sta dilagando nei loro cuori. Nel centenario della tragica deflagrazione europea, ho voluto sottolineare le qualità percettive e preveggenti degli artisti di quel tempo. Basandomi anche sugli studi di Thomas Harrison che, nel libro “L'emancipazione della dissonanza”, un termine caro a Schönberg, ritrae molto bene l'atmosfera europea intorno al 1910, quando l'Europa viene "sentita" a un passo dalla catastrofe».

Quanto c'è di reale in “Egon&Jim”?

«Molto, direi. La descrizione del processo e le impressioni disastrose di Schiele sulla sua prigionia sono tratte dal Diario di Neulengbach. Mentre le informazioni sul soggiorno triestino provengono dalla sua corrispondenza; lo stesso vale per Joyce e le sue lettere del periodo triestino».

Nel finale della pièce compare il transatlantico Carpathia in partenza: è un'invenzione letteraria?

«No, quel giorno il Carpathia si trovava veramente attraccato al Molo. Lo si può dedurre da una lettera di Schiele ad Anton Peschka, datata per l'appunto: Trieste 14 maggio 1912. Schiele, che sta soggiornando al Palace Excelsior Hotel, osserva il mare e nota proprio il Carpathia, tornato a Trieste solo un mese dopo aver soccorso, al largo del Canada, i naufraghi dello sfortunato Titanic».

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