L’orribile paradiso di Suburbicon
George Clooney racconta il lato più oscuro e abietto dell’America di Trump

“Suburbicon” è il nome immaginario di un sobborgo ispirato a Levittown, centro urbano sorto in Pennsylvania dopo la Seconda Guerra Mondiale, destinato esclusivamente a persone di “razza caucasica”. Un vero e proprio paradiso wasp: villette a schiera con pratino all’inglese e vialetto d’ingresso per le automobili dell’american dream, dove abitano le famiglie della middle-class con signore eleganti, mogli e madri devote, impegnate a sfornare pancakes e a offrire conforto ai loro mariti. Baseball, colori pastello, buone maniere di sola facciata. In questo luogo tranquillo dove tutto è apparentemente “ideale”, Gardner Lodge, prototipo dell’uomo comune che ha la fisionomia dell’ex bravo ragazzo Matt Damon, vive con la famiglia, la cui perfezione è stata sfregiata da un incidente automobilistico che ha inchiodato la moglie sulla sedia a rotelle. Ma c’è la gemella di lei, Margaret (infallibile Julienne Moore, nei panni di entrambe le sorelle), a prendersi amorevolmente cura delle faccende domestiche e del piccolo Nicky (strepitoso Noah Jupe). A sconvolgere la prevedibile routine di questa sorta di “Peyton Place” è l’inatteso arrivo dei Meyers, elegante famiglia afroamericana trasferitasi in città, proprio nella casa a fianco a quella dei Lodge. È sufficiente la loro seppur discreta presenza a far salire immediatamente la tensione alle stelle. L’ostilità degli abitanti di Suburbicon è manifesta. Si comincia con piccole provocazioni, via via sempre più sfacciate, per passare progressivamente alle intimidazioni, alle palizzate erette intorno alla loro abitazione per confinarli, farli sentire esclusi, emarginati, fino all’esplosione di atti di immotivata e ingiustificabile violenza. Intanto, nelle case dei bianchi, proprio a due passi, potrebbe consumarsi l’orrore. Eppure nessuno ci farebbe caso.
Per la sua sesta regia, riscattandosi dopo l’inciampo del rovinoso “Monuments Men”, George Clooney rispolvera una sceneggiatura inedita scritta da Joel e Ethan Coen nel 1986, poco dopo “Blood simple”. La zampata dei fratelli di Minneapolis si sente, più che altro confinata nelle ambientazioni e nel tono grottesco di una dark comedy in cui il piano per un “delitto perfetto” si sgretola fino a sfociare in farsa sanguinolenta. Più del principio di indeterminatezza, del nichilismo esistenzialista e tagliente e di un universo caotico non governato e governabile di stampo tipicamente coeniano, al militante Clooney, autore degli ottimi “Good Night e Good Luck” e “Le Idi di marzo”, interessa quasi esclusivamente la lettura politica di questa storia, ambientata nell’America di Eisenhower ma perfettamente trasponibile a quella del presente (in questo gioco di traslazione temporale dall’America di ieri a quella di oggi, nuovamente travolta da un’onda inquietante di razzismo, sempre segnata da endemica violenza, “Suburbicon” è in parte accostabile al magnifico “Detroit” di Kathryn Bigelow, in sala un paio di settimane fa). Di coeniano, semmai, c’è la presenza di Julienne Moore, “dark lady” biondo platino in versione Lana Turner e di Oscar Isaac, magnifico come in “A proposito di Davis”, qui nei panni di un assicuratore con il fiuto per le truffe. È l’ipocrisia a stelle e strisce il vero bersaglio del film, con tutto il corollario di belle apparenze e di peccati nascosti sotto il tappeto. Nel crescendo di violenza, Matt Damon, mostruoso e amorale, si trasfigura fino ad assumere le sembianze di una maschera dell’orrore. Tra i vialetti ordinati di Suburbicon abitano i peggiori vizi del suprematismo bianco, il lato più oscuro e abietto dell’America di Trump. E il sogno si tinge di nero. Ma due ragazzini con palla e guantone sanno guardare oltre il colore della loro pelle, oltre i confini degli steccati. E allora, forse, si può ancora sperare in futuro migliore.
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