Il nome e i destini: l’enigma inquieto di Marama Toyo

Un libro ripercorre la storia incredibile di un pilota capace di attraversare guerre e mondi

Fabrizio BrancoliFabrizio Brancoli
Marama Toyo (Roberto Ivanicich) in una foto d’epoca dell’archivio storico del Moto Club Trieste
Marama Toyo (Roberto Ivanicich) in una foto d’epoca dell’archivio storico del Moto Club Trieste

Passa una motocicletta. Lo senti, questo motore? C’è chi lo chiama frastuono. Invece tu pensi che sia come musica, vero? Allora potresti essere interessato a questa storia.

Conosciamo, nella vita, uomini che lasciano dietro di sé polvere e schizzi d’olio nero, come motociclisti in una foto d’epoca. Ma a volte si incontrano anche uomini che lasciano scie luminose, speciali, uniche; e difficili da inseguire.

Adolfo Marama Toyo appartiene a entrambe le categorie: corre, cade, si rialza, scompare dietro le curve della storia. Dov’è finito? Quando cerchi di seguirlo, scopri che anche il suo nome è un enigma.

Di lui parla ora un bellissimo libro, con una veste grafica eccellente. Si intitola “Sulle tracce di Marama Toyo” ed è firmato da Franco Damiani di Vergada, con contributi di Alessandra Mattei Galbusera, Giancarlo Cavallini e Mirco Snaidero.

Un libro che poggia su una clamorosa ricerca dell’Ufficio Storico del Moto Club Trieste, per Tiglio edizioni. 168 pagine appassionanti, perché questa storia sarebbe un magnifico film, o una fiction, come va di moda oggi.

Roberto Ivanicich nasce a Fiume al tramonto dell’800, figlio di un impero che si sarebbe presto dissolto, vive un destino che non conosce soste. Soldato sul fronte galiziano nel 1916, viene trascinato nel vortice della guerra mondiale e spinto lontano, fino alle steppe della Siberia, al seguito del Corpo di Spedizione Italiano.

Due anni in un altrove estremo, un ritorno che diventa giro del mondo: Giappone, Australia, Egitto. Quando approda a Port Said, la sua città natale è già travolta dalle imprese dannunziane. Decide allora di restare in Africa e di farsi cittadino egiziano. Chiamatelo come vi pare, ma non provate a incasellarlo: era nato per dribblare le definizioni.

In quei deserti, forse, nasce il soprannome Marama, che significa foulard in croato o chiarore di luna in maori. Toyo invece rimanda all’Oriente, a l’eco di Giappone che percorre la sua biografia. Un soprannome, un alias. Che poi diventa di più: un nome vero, in un’identità inafferrabile.

Tornato in Italia, incontra Plinio Galbusera, geniale costruttore. Diventano amici e attivano un progetto incredibile: nel 1938, a Brescia, architettano e realizzano una motocicletta con un motore a due tempi e otto cilindri a V, ottenuto dall’unione di due quadricilindrici. Che idea fantascientifica per l’epoca! Al Salone di Milano lascia tutti senza parole.

Non era un folle, soltanto un uomo che viaggiava qualche decennio avanti agli altri. Sipario, intervallo. La guerra interrompe tutto. I bombardamenti annientano la Galbusera. Il 30 maggio 1946, a Trieste, durante una gara di speedway all’ippodromo di Montebello, Marama Toyo cade. E muore. Ha soltanto 48 anni.

Oggi riposa nel cimitero di Cosala, a Fiume (ma la sua moto è risorta, grazie alla pazienza di un artigiano friulano che ne ha ricostruito il prototipo). Restano foto sgranate, cronache sbalordite, ipotesi confuse sul suo vero nome. Scie tracciate dagli esseri umani quando bruciano la vita in fretta, senza mai guardarsi indietro.

Marama Toyo, che storia. Il suo vero motore non fu mai metallico. Il motore era un’inquietudine esistenziale, l’impulso a voltare pagina. Qualcosa che nessuna pista poteva contenere.

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