María, il carnefice e il poliziotto un nodo oscuro di passioni
Si chiama María, con l'accento sulla i come la nonna andalusa, anche se il nome, sui documenti, glielo scrivono sempre sbagliato. Insegnava ai bambini con soddisfazione in una piccola città del Veneto circondata dai suoi cari, ma per amore ha voluto seguire il suo uomo in un'assolata isola siciliana, credendo d'iniziare una nuova vita. La discesa agli inferi che l'aspetterà è al centro dell'ultimo breve romanzo di Nadia Fusini, studiosa di letteratura inglese e ritrattista di celebri scrittrici: "María", edito da Einaudi (pagg 131, euro 13) è infatti il suo ritorno alla narrativa.
Si presenta un giorno in questura a Trapani, María. A raccogliere la sua deposizione è un poliziotto, Santini, voce narrante del libro. Uomo sensibile ma solo, e che vive perciò le vite degli altri, sarà subito affascinato da questa donna apparentemente anonima ma perbene. Un'impressione che cozza però con quel suo strano esordio: «Sono venuta a confessare un delitto». María racconterà così la sua storia di donna comune che ha incontrato il male. Appassionandosi all'umanità e al suo calvario di donna maltrattata, l’agente cercherà di comporre i tasselli del puzzle anelando a conoscere ogni aspetto di quell'esistenza dannata. «Non è vero che si ama solo la felicità, si può amare in modo altrettanto appassionato il male», dice infatti María: prende forma così un racconto feroce, in cui vittima e carnefice sono legati in un rapporto quantomai ambiguo. In questa prima parte Fusini costruisce un racconto teso e sapientemente analitico, indagando con acutezza e sensibilità la varietà dei moti dell’anima, dal nodo oscuro di passioni che lega i protagonisti fino alla lenta risalita e al riappropriarsi dell'identità grazie alla maternità, sviluppando in generale forte empatia nel lettore.
Discorso diverso per la seconda parte, quando, messasi finalmente in salvo, la protagonista spedirà a Santini il proprio diario. Diario che il poliziotto leggerà a piccole dosi, «come per drogarmi» e dove la donna indaga stavolta spontaneamente nelle viscere di quell'amore tossico, lanciandosi a scandagliare il proprio io. Pagine intere dove analizzerà anche le malsane dinamiche che muovono l'amato, «bestia che ama il male e la degradazione», ma anche la giovane con cui lui la tradisce.
Di questa tranche però non convince né la natura che riveste nell'economia drammaturgica complessiva tantomeno il tono scelto. L'espediente del diario, infatti, non fa che appesantire la narrazione fino a quel momento sviluppata, portando ben poco al già detto durante la deposizione. Se è interessante magari qualche aspetto non ancora toccato - il concetto di bontà passiva come «esca per la cattiveria» ad esempio - ciò non basta al lettore per togliersi di dosso l'impressione di una fastidiosa ripetizione dei concetti, che a lungo andare viene a noia o può risultare addirittura snervante. Complice anche il tono della protagonista sempre più morbosamente compiaciuto della propria sottomissione.
A traballare è, infine, anche la verosimiglianza: María scrive in una prosa antica e pomposa ma comunque di una certa levatura, e compie su se stessa un'analisi psicologica spietata come pochi sarebbero in grado di fare. Assai poco plausibile risulta quindi il fatto che non sappia leggere i segnali del suo corpo che cambia, non comprendendo per mesi di essere incinta, neanche fosse una povera ragazza di campagna qualsiasi. —
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