Mummia del bimbo Petamenofi dal Museo egizio cerca i genitori

TORINO

Tra i tanti tesori del Museo Egizio di Torino c'è la mummia di un bambino, un piccoletto morto a Tebe in un giorno di fine agosto del 123. Si chiamava Petamenofi e aveva solo 4 anni. Gli amorosi e benestanti genitori vollero per lui una antica tomba monumentale, la stessa nella quale a tempo debito vennero poi accolti i fratelli del bimbo, gli zii e tutti i parenti. Quasi duemila anni dopo i resti di quella famiglia, ritrovati nel 1819 dal torinese Antonio Lebolo e subito commercializzati, sono dispersi nei musei di tutta Europa: i genitori al Louvre, i fratelli a Berlino, altri parenti a Leiden e al British Museum. Quasi la stessa cosa si è ripetuta nel 1891 con l'incredibile scoperta di Bab El Gasus, oltre 156 sepolture di potenti sacerdoti e delle loro famiglie complete dei loro corredi con 660 parti di sarcofagi risalenti al III Periodo Intermedio. Un tesoro tanto ricco e imponente che due anni più tardi, dopo una frettolosa e imprecisa catalogazione, fu diviso in 17 lotti da 106 pezzi l'uno per farne addirittura omaggio a tutti i dignitari europei invitati per l'incoronazione del sovrano Abbas Elmy II. Con il risultato che oggi i corredi di Bab el Gasus sono sparsi in 34 diversi musei.

Una mostra immaginata prima del Covid, racconta il direttore del Museo Egizio Christian Greco, avrebbe dovuto riunire a Torino, tra la fine del 2020 e il 2021, la famiglia del piccolo Petamenofi. «Dobbiamo avvalerci delle infinite possibilità che ci sono offerte dalla rivoluzione digitale - dice oggi il direttore - per riunire i disiecta membra, i reperti strappati dai loro contesti e sparsi qua e là nel mondo».

Il progetto di riunire la famiglia di Petamenofi e di farlo senza più spostare materialmente mummie, sarcofagi, papiri e preziosi corredi, potrebbe essere il primo passo verso il “museo impossibile”. Ovvero ridare vita alla famiglia di quella mummia che sembra una bambola di pezza, con un racconto virtuale e ricostruzioni scientifiche e grafiche. Un obiettivo che richiede ingenti investimenti, ma darebbe all’Italia un grande ritorno di immagine culturale e scientifica. La ricostruzione digitale «non si sostituisce al museo tradizionale», ribadisce il direttore, bensì «lo affianca e lo arricchisce» offrendo «tanti possibili livelli di lettura, riallacciando legami, trovando connessioni tra un oggetto e l'altro, facendo rinascere i paesaggi nei quali si muovevano quelle vite».

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