Negli ultimi giorni di Anita Ekberg la luce di una vita ancora dolce
“Marcello, come here”. La testa rovesciata all’indietro, l’acqua che bagna i capelli biondissimi e lunghi sul vestito nero, la passeggiata nella fontana inseguita da Mastroianni con quell’invito carico di eros: ”Marcello, come here”. Immagini eterne di un film che non ha solo segnato la storia del costume, l’ha fatta. Anita, Anitona Ekberg come la chiamava Fellini, occhi di ghiaccio, gelo svedese. Era stata lei, ne era convinta, a eternare Federico, e non viceversa.
In quel Sessanta, con quella Dolce vita, aveva raggiunto il top di una carriera cominciata pochi anni prima in America con Gianni e Pinotto ed era diventata il massimo per un attrice, una diva.
Da quello zenith sfolgorante in cui teneva gli uomini in pugno, tra i tanti Dino Risi e Gianni Agnelli, che era stato uno dei suoi più lunghi flirt, poteva solo cominciare una lunga, malinconica caduta, che poi negli ultimi anni era diventata uno sprofondo nella impostura della malattia, nello sfacelo del corpo che era stato bellissimo, nella prigionia di una casa di riposo. È qui, in questa residenza sul colli romani, nel finale di partita dello sfolgorante viaggio di una star hollywoodiana, Anita Ekberg viene raccontata da Alessandro Moscè.
Con “Gli ultimi giorni di Anita Ekberg” (Melville edizioni, pagg. 173 , Euro 18, 50) lo scrittore marchigiano che collabora al Foglio e ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva”, entra nel giro delle ore quotidiane di Anita, prova a sentire i suoi pensieri, suscita i suoi ricordi.
Cos’altro può fare un’anziana attrice quando ormai non ha più niente davanti? Anche la speranza della chiamata di un regista è svanita, resta la lotta con i dolori del corpo, il rimpianto per la villa di Genzano con il prato di rose, un fiore così bello e fragile, che si spampana e quando è sgualcito perde tutto il suo antico profumo e la sua bellezza.
Come Anita, abbandonata su un letto e consumata dal cancro al fegato. Moscè ritrae una donna sola ma, forse stranamente, non infelice. Tra vero e falso, come dal baule di un trovarobe, compaiono personaggi improbabili, un anacoreta, un prete dedito all’alcol, una signora minuta e garbata con cui stringe amicizia.
Con dolcezza nel suo romanzo Moscè compie un viaggio all’interno di un’anima. E poi i tarocchi, lo spiritismo così caro a Fellini. E appunto lui, il mentore di Anita, che compare col suo cappello di feltro per l’ultimo ciak a offrirle con la sua vocina il conforto di una speranza: “Vuoi sapere che succede fuori di qui? Torniamo ragazzi, siamo di una ilarità che non avevamo neanche a vent’anni” . —
Pa. Marc.
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