Nei disegni di Nathan la solitudine dell’uomo destinato al sacrificio

il personaggio
trieste
«Parlavo vivo a un popolo di morti», è un verso di Saba. È posto in esergo al catalogo “Arturo Nathan. L’opera su carta, 1920-1943” (Edizioni Torbandena) a cura di Marilena Pasquali e Alessandro Rosada. Una pubblicazione che va a siglare anche la proroga della mostra che resterà aperta fino al 15 ottobre nella grandi sale di via San Nicolò 11 e nello studio di via Torbandena (da mercoledì a venerdì ore 16-19.30, sabato ore 11-13 e 16-1930). Un verso, quello di Saba, che è anche una sintesi di un profilo complesso, un artista su cui non si è fatta ancora abbastanza luce e di cui, come sostiene Pasquali nell’introduzione, sarà forse presto a disposizione il Catalogo Ragionato, uno studio indispensabile per ogni artista; «e se questo vale per ogni artista, vale soprattutto per chi, come Nathan, non ha potuto né conoscere né controllare il destino dei propri lavori».
Il catalogo presenta ed esamina una parte dell’esposizione, le opere su carta appunto, in mostra alla galleria di via Torbandena. Va detto che su un centinaio di opere prodotte dal pittore triestino, ben cinquanta occupano le due sale, in via Torbandena si può prendere visione dei disegni, soprattutto del secondo e terzo periodo, le opere a matita più mature, quelle del 1925-1930 e 1941-1943. La serie degli autoritratti è già lì, in quelle perfette prospettive che si allacciano a un’atmosfera metafisica, dal sapore buddhista, ma ricordano anche le assolute profondità geometriche di Paolo Uccello, immagini quasi distopiche che coniugano passato e futuro. Perché certo Nathan era profondamente colto, lo dice la sua opera e la sua poetica, amava la filosofia, la poesia, la cultura psicoanalitica, ma come ogni genio era un visionario, tratteneva una sorta di veggenza profetica.
Sono troppe le carte e le tele che ci restituiscono una “solitudine”, un’evoluzione (dall’aura eroica a un abbandono, quel voltare le spalle al mondo) che confermano la giusta intuizione nathaniana. In quelle carte, prima ancora della sua prigionia e della deportazione, c’è già un mondo severo, pronto alla devastazione e che l’artista guarda frontalmente, di spalle allo spettatore. O abbassando la testa, come ne “L’asceta”, raffigurazione che si presta a molteplici interpretazioni, guidate da quella di un uomo già collocato su un altare sacrificale. Un senso tragico che entra in contrasto con la brillantezza dei colori, con l’ordine delle forme. Così le marine della prigionia ci confermano quel presagio drammaticamente in atto. Non è certo un mare sereno, quello di Nathan, lui che del mare non poteva fare a meno, ma che ora ci rimanda a una placenta che trattiene anche le cose finite: relitti, navi nella tempesta o in naufragio, dal vago sapore turneriano, tratto che si era già espresso nelle “Rupi vulcaniche”, imponente tempera che non può non ricordare le “Eruzioni vulcaniche” del pittore londinese.
Statue in vedute surreali, cervi, cani, scheletri di imbarcazioni, spiagge al crepuscolo, coste ghiacciate e altri autoritratti sono le maestose figure a olio e tempera esposte nei due piani di via San Nicolò, una pinacoteca piuttosto spettacolare in cui Nathan trionfa per un cromatismo modernissimo e un senso della figura non solo metafisico. A lui si deve la capacità di una visione tragica, paradossalmente toccata dalla grazia poetica. Non a caso spesso sceglie il cavallo come animale simbolo: di violenza, bellezza, compassione. Esattamente come fece Eugenio Montale nel 1925, che destinò questo animale a esprimere il male di vivere. E non c’è contrasto più forte di un “cavallo stramazzato”.
Il catalogo della mostra, oltre all’autografia di Daniele Margadonna, nipote dell’artista, include un racconto di Alessandro Rosada, una sorta di resurrezione dell’artista che può finalmente prendere visione dell’eredità che ha lasciato al mondo. Inutile dire quanto Nathan fosse inserito nell’ambiente culturale triestino, e non solo: amico di Sbisà, Weiss, Saba, Svevo, Dorfles. E fu amico di De Chirico. Espose pure più volte alla Biennale di Venezia, ma tutto ciò non servì, lo sappiamo, la vera arte difficilmente ha potere sul presente. Si spense nel campo di concentramento di Biberach an der Riss, il 24 novembre del 1944. —
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