Nel viale dei Campi Elisi la memoria non si fa sorprendere quando si fa scuro

Una bambina, poi ragazza al cinema Ariston. E la sottile inquietudine del tempo trascorso
Una veduta del Passeggio Sant'Andrea in una cartolina del dopoguerra
Una veduta del Passeggio Sant'Andrea in una cartolina del dopoguerra

TRIESTE Ovali di fiato fioriscono sui vetri della finestra. Una bambina guarda giù in strada, impaziente. Dalla strada una donna osserva la finestra della stanza dove trascorse l’infanzia. Viale dei Campi Elisi. Case popolari. La ripresa edilizia dopo la seconda guerra. Una vasta corte adibita a spazio comune e giardino. A monte il colle di San Vito con ville e palazzine, a valle lo scalo ferroviario del Porto Nuovo e l’Arsenale del Lloyd con la bianca torre merlata orgoglio e futuro della città.

Sa che la bambina è in punta di piedi. Che aspetta. È lei quella bambina. La neve è caduta abbondante. Sferzati dalla bora, vibrano come corde di chitarra i cavi aerei su cui si agganciano le aste del filobus che da ore non passa.

Spesso è così. Il magnetismo della memoria prende in lei il sopravvento. Certi giorni le strade della città si popolano di ricordi. Frastornanti. Presenze che cerca e rifiuta in un estenuante gioco di sdoppiamento e ricomposizione di ciò che è stata. Ora passa davanti al cinema Ariston e si vede ragazza. In una primavera carica di promesse. La sera era tiepida, profumava la siepe di ligustro. Quando vennero aperte le porte laterali per far defluire il pubblico e la colonna sonora del film inondò viale Romolo Gessi, rimase stordita, come se un filo sottile legasse le vicende viste sullo schermo a un trascorso anche suo. La musica e il vocio sembrano riverberare ancora nell’aria. Procede distogliendo il pensiero.

Sale su un autobus che scavalca il colle e raggiunge le rive. Scende in centro. Davanti a un negozio di abbigliamento un’altra sembianza la turba e la afferra; incrocia lo sguardo di una giovane che scosta le tende del camerino di prova e si gira verso di lei a ricordarle che la femminilità non svanisce con la vecchiaia.

L’abito acquistato allora, trent’anni fa, forse più, è ancora appeso in armadio; le capita a volte di sfiorare il tessuto e immaginare di indossarlo.

Arriva all’appuntamento che le ha dato un’amica al Caffè Tommaseo. C’è in programma un incontro letterario. Il relatore parlerà della grande stagione che ebbe per protagonista la città; poi un attore darà corpo ad alcune liriche, infine ciascuno dei presenti potrà intervenire, leggere una pagina scritta di suo pugno.

Sulla porta d’ingresso sono appese locandine di concerti e spettacoli. Un manifesto annuncia al Centro Congressi, la lectio magistralis di un noto intellettuale. Occhieggiano in calce i patrocini e i nomi degli sponsor: istituzioni, compagnie assicurative, colossi industriali. Cinquecento posti disponibili.

La luce entra dalle vetrate del locale e si fa di minuto in minuto più rosata. Va in scena il tramonto. I convenuti, una ventina in tutto, iniziano a prendere posto ai tavolini rotondi di marmo di fronte alle poltrone dove si siederanno gli ospiti che stanno parlottando fra loro per accordandosi sull’ordine degli interventi.

La donna fissa un tavolinetto addossato alla parete di specchi. Riaffiora l’amaro di una discussione che a quel tavolo le impedisce ancor’oggi di sedersi; un calice vuoto, nell’altro l’aperitivo lasciato a metà quando si alzò e uscì senza voltarsi.

Bambina, ragazza, donna. Recitano per lei la ripetizione dei momenti vissuti e perduti. Gli assalti della memoria si fanno più pressanti, sera dopo sera.

Intanto gente entra ed esce. Qualcuno osserva il cenacolo. Nello spazio di fianco è in corso la riunione di una fondazione benefica che, grazie a elargizioni, anche modeste, assicura borse di studio a studenti meritevoli e sostiene un’associazione che soccorre famiglie in povertà. Nelle altre salette si parla del più e del meno: politica, affari, ciacole, babezi. S’affacciano in sala visitatori stranieri, annusano questo presente che odora di passato, sostano, respirano gli umori, proseguono il tour. Irrompe un gruppo di turisti italiani; ammirano specchi, stucchi, velluti, poi si affollano davanti al manifesto che annuncia l’evento della settimana. Gli inviti si possono ritirare all’infopoint fino a esaurimento.

Arriva un anziano campione sportivo con due nipoti grandicelli che indossano le magliette di una storica società velica del golfo. La donna lo ricorda misurarsi nei giochi con i coetanei, alcuni timidi, altri sfrenati; e poi lo scivolo, le altalene, la pista di pattinaggio di piazzale Rosmini, di fianco alla chiesa della Madonna del Mare, baricentro degli isolati circostanti dove vivevano famiglie di professionisti, impiegati, operai: un laboratorio interclassista in cui si è formata una parte della classe dirigente della nuova Trieste. L’uomo fa un cenno di saluto verso il loro tavolo. Lo sguardo dell’amica s’illumina come per un colpo di vento.

La donna ora si abbandona alle immagini suscitate dai versi. Sorride all’amica, riconoscente per averla convinta a uscire di casa. È come se i pensieri trovassero un po’d’ordine e una ragion d’essere. Le emozioni che le parole trasmettono aiutano le sue ombre a riconoscere lo spazio interiore dove albergare in pace.

Il pomeriggio vola rapido. La donna rientra a casa, cena, telefona, poi termina la lettura del giornale scorso al mattino. Si rammenta di una frase che le è rimasta impressa: “Non devo farmi sorprendere in strada quando l’aria s’abbruna”. Pronunciata da un poeta sconosciuto che ha partecipato all’incontro. Le sue stesse inquietudini. La ripete una volta, due volte, più volte. Come un mantra. —

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