Nella Jugoslavia di Tito una bambina racconta la famiglia, la malattia, una Barbie coi bulloni

Caso letterario in Slovenia “Il bianco si lava a novanta” di Bronja Žakelj esce in Italia con Bottega Errante Edizioni



«Nella nostra cucina si ride molto, si litiga e si piange. A volte si dicono cose che fanno tremare le gambe». È una voce ingenua e sognante quella della protagonista del romanzo di Bronja Žakelj: una bambina tenera, senza filtri, che racconta in un lungo dialogo alla madre la sua versione di una vita familiare fatta di alti e bassi, di gioie e paure, una vita come tante altre che riesce però, fin da subito, a diventare epopea condivisa di un preciso momento storico. La vicenda si svolge tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento a Lubiana, nella popolare via Vojkova, dove la protagonista insieme ai genitori, al fratellino e alla nonna passa le sue giornate in un modesto appartamento tra gli amici di famiglia che fumano e bevono slivovitz, le comparsate di Tito alla televisione e l'attesa di mangiare un agognato cioccolatino.

“Il bianco si lava a novanta” (Bottega Errante Edizioni, pagg. 280, euro 17), tradotto da Michele Obit, è un romanzo corale e appassionato che è stato un caso letterario in Slovenia. L'autrice Bronja Žakelj è abile nell'allestire un girotondo di facce e di caratteri che ruota attorno alla piccola osservatrice che dalla sua altezza di bimba guarda e riporta la storia al lettore. Una bambina che decide che da grande diventerà medico e trasforma il gioco in una prova generale: «Visto che sarò dottoressa, ogni giorno opero le uova all’occhio di bue. Con il coltello taglio attorno al tuorlo nell’albume, e per arrivare al tumore scosto con prudenza la membrana dal tuorlo. Se inizia a sanguinare, uso il pane, la crosta o il cuore, come tampone. Se il sangue non si ferma l’uovo muore, perciò ti chiedo di fare il tuorlo più duro».

Poi la malattia farà capolino davvero nella sua vita: prima con l'operazione che deve subire al piede a causa del suo “dito selvatico”, poi quando in ospedale “vede il cancro”, ovvero un malato terminale, infine quando sua madre sarà vittima di questo tremendo male. Ma anche il dolore è filtrato attraverso gli occhi candidi e ironici dell'infanzia e così i giochi e le fiabe nell'intesa col fratellino, le gare di sci alle temperature più estreme, le estati a Rovigno e gli strampalati parenti formano un girotondo di umanità ricco e vivace. Il ritmo è scandito dagli avvenimenti politici e sociali del periodo, dalla morte di Tito ai giochi olimpici di Sarajevo del 1984 vissuti davanti allo schermo televisivo, ma il romanzo non si abbandona al filone di una facile Jugo-nostalgia.

L'opera di Bronja Žakelj è fin da subito un affresco accorato e denso in cui i personaggi, forti anche di un loro personale lessico familiare, riescono a interpretare una trama del tutto originale che crea una forte empatia con il lettore. È un mondo ancora analogico, manuale, in cui per prendere bene il segnale televisivo e vedere le partire o i cartoni animati è necessario che il papà salga sul tetto a sistemare l'antenna. Un mondo semplice in cui la tanto desiderata Barbie che arriva in regalo ha sgradevoli e antiestetici dadi e viti nei gomiti e nelle ginocchia. Ma è un mondo in cui ai bambini è lasciato ancora il diritto di giocare, di scoprire e se qualcosa va storto la spiegazione è da imputare solo al caso: «Capita che qualcuno non ti veda. Perché se ti vede ti vuole bene, quando sei piccola tutti ti vogliono bene».

E quando alla madre si gonfia la pancia a causa del cancro quel cambiamento segnala l'arrivo di un fratellino perché la logica infantile non può concepire che il male sbocci tra gli affetti. La vita insegnerà alla protagonista ad affrontare la perdita e la malattia, a superare le paure e i problemi che non si vogliono vedere fino a che non esplodono. —

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