Nicolae Dabija: «La poesia è un gioco di coltelli»

Il poeta Nicolae Dabija riceverà oggi, al Caffè San Marco alle 20, il Premio Internazionale Trieste Poesia. Durante la cerimonia saranno letti versi dalla raccolta antologica "Diritto all'errore", pubblicata da Puzzo editore in occasione del premio (a cura di Gaetano Longo con traduzione di Varvara Valentina Corcodel). Assieme a lui anche Vincenzo Bianchi, vincitore del Premio "Un poeta per la Pace". Il Caffè San Marco insomma si farà spazio adibito alla poesia più classica, più ufficiale, ma anche a quella più giovane e irriverente con l'International Poetry Slam, realizzato con la Lips - Lega Italiana Poetry Slam - a cui parteciperanno la poetessa svedese Laura Wihlborg e Roger Peláez, cantante del gruppo folk punk Comitè de Salut Pública, ma anche il giovane veneziano di origine albanese Julian Zhara e il triestino Vincenzo Russo.
Autore riconosciuto della rinascita nazionale della Bessarabia, Nicolae Dabija ha mantenuto le profonde radici della propria lingua declinandole a una vena lirica, ma anche umoristica. Una poetica che si affida a temi classici - l'amore sopra tutto - senza rinunciare alle ambizioni allegoriche, al simbolo che rimanda ad altra realtà. Come quella del suo paese, del sofferto tragitto politico di un territorio.
Come stanno in relazione la storia di un popolo e la sua poesia?
«Vengo da uno spazio dove ci sono stati poeti condannati perché hanno scritto delle poesie, e per questo sono stati deportati in Siberia. Lo stesso trattamento è stato riservato a professori insieme ai loro alunni, solo perché avevano letto dei libri. Nel 1989, l'anno della caduta del comunismo a Chisinau, alcuni poeti hanno fermato con i loro versi i carri armati sovietici che intendevano uccidere i dimostranti. Nello stesso anno, dai loro versi si è acceso il fuoco ed è stato bruciato il palazzo del Ministero dell'Interno, dove erano rinchiuse le persone arrestate. In questo modo la poesia ha compiuto la sua missione di fronte alla storia».
Riferendomi a un suo testo, "Lettore di poesia", pare chiaro che la scrittura debba agire sia sul lettore che sull'autore.
«Oggi la poesia non può più essere scritta solo dai poeti. "La poesia deve essere fatta da tutti", pensava Lautremont, evidenziando in questo modo quanto il lavoro del poeta debba essere completato dal lettore. I versi non sono altro che un dialogo fra il poeta e il lettore. Io scrivo per il lettore che non è ancora nato così come per quello che è morto, anche se solo il lettore contemporaneo è la prova attuale della mia esistenza».
Ultimamente pare che scienza e materie umanistiche si fidino di più l'una dell'altra. Lei che ne pensa?
«Anni fa a un convegno sulla fede e sulla scienza che si è svolto in Vaticano, l'allora Papa Benedetto XVI ha applaudito una frase del mio discorso. Affermavo che: “hanno più futuro i paesi che hanno più Dio”. Per parafrasarmi direi che hanno più futuro i paesi che hanno più poesia».
Eppure in molti profetizzano la fine del genere…
«Non ci credo. E se la fine del mondo dipende da Dio, la fine della poesia dipende da noi, i creatori e i lettori. Certo è necessario difenderla, spesso dagli stessi poeti, dai versi senza senso, che non dicono nulla se non la superficialità dell'emozione, versi invecchiati ancor prima di nascere. Sono cose che allontanano il lettore. La poesia è un gioco, ma un gioco di coltelli».
Quali gli scrittori che hanno più influenzato la cultura rumena e moldava?
«Indubbiamente Mihai Eminescu, considerato una sorta di Leopardi della Romania. Poi Lucian Blaga, Nichita Stanescu, Marin Sorescu e Grigore Vieru, poeta di lingua romena della Repubblica Moldava. Hanno avuto una grande influenza anche sulla cultura europea».
Perché come ha scritto in un suo verso il poeta non ha diritto all'errore?
«Tutti i nostri futuri pronipoti sapranno come eravamo tramite gli scavi e le ricerche archeologiche o aprendo le porte degli archivi, ma anche leggendo libri di poesia di questi nostri tempi. Ecco perché il poeta non ha diritto all'errore».
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