Noi partigiani, voci di piccoli e grandi eroi che l’Italia liberata ha lasciato indietro

la recensione
Federica Manzon
«Quando il 25 aprile andavi a mettere una corona d’alloro sotto al monumento ai caduti, la polizia ti faceva togliere il fazzoletto rosso» o perlomeno è stato così fino agli anni Sessanta, racconta Mario Candotto partigiano di Ronchi dei Legionari. Una delle tante voci di “Noi, Partigiani” il libro curato da Gad Lerner e Laura Gnocchi (pagg. 400, Feltrinelli, 20 euro) in uscitadomani, che raccoglie le testimonianze di uomini e donne che nel 1943 scelsero di combattere per la liberazione dal fascismo. Testimonianze che andranno anche in onda su Rai3 in un programma di Gad Lerner a partire dal 27 aprile.
Un libro che non è solo un memoriale della Resistenza che ci ricorda su quale terreno nacque la nostra Costituzione, ma è anche un antidoto e una bussola per i nostri tempi. I partigiani hanno un sesto senso, spiegano infatti i curatori, capace di cogliere in anticipo certi segnali. Hanno una vocazione rabdomantica che fa percepire loro i semi del fascismo quando iniziano a farsi strada nella società come piante infestanti, sotto forma di razzismo, maschilismo, militarismo, antipolitica, retorica nazionalista. E allora questo libro è un avvertimento che non possiamo non ascoltare. Soprattutto in territori come il Friuli Venezia Giulia, e Trieste in particolare, dove la Resistenza è stata a lungo, e sta tornando a essere, un’esperienza letta in modo controverso, manipolata da qualunquismi elettorali che soffiano sul fuoco dell’intolleranza, dell’ignoranza strumentale. Trieste, unica città italiana ad avere avuto un lager nazista, non deve lasciar cadere questa memoria in nome di un arrivista “andiamo avanti” o di un più frivolo “non se né può più di parlare dei partigiani il 25 aprile”, perché la frontiera visibile e invisibile che definisce la città è, da una parte, il fattore decisivo per la sua complessità cosmopolita, ma è anche il volano per una retorica razzista e nazionalista che rischia inevitabilmente di sfociare in nuovi fascismi.
“Noi, partigiani” è un libro importante perché non ricorda solo i grandi capi della Resistenza, coloro che nel dopoguerra vennero insigniti del grado di “partigiano combattente” o “patriota” da apposite commissioni. Ma dà la parola a molti tra coloro che ebbero ruoli minori, artefici di eroismi inconsapevoli, donne che vennero escluse dagli elenchi al merito, volontari che nel 1943 erano ragazzini o addirittura bambini e non esitarono a salire sui monti.
Queste pagine ci fanno capire con che precoce coraggio ragazzi e ragazze non abbiano esitato a sfidare il fascismo esponendosi ed esponendo la propria famiglia al peggio. In nome di cosa? Della libertà, di un’ideale di giustizia e solidarietà. In nome della propria dignità. Si rifiutarono di chiudere gli occhi davanti ai compagni di classe allontanati da scuola, ai compagni di lavoro picchiati, ai vicini deportati sui treni, non anteposero a tutto la tranquillità personale o i meschini vantaggi. E questo è un insegnamento che oggi dovremmo riportare nella nostra vita, per restituirle un valore e una dignità, un senso anche.
Oggi ci colpisce la testimonianza del partigiano Mario Candotto che racconta dei ragazzi della scuola di Ronchi dei Legionari: radunati in palestra da un gerarca, venne chiesto loro chi voleva arruolarsi come volontario nelle file fasciste e nessuno si fece avanti. Candotto che si arruolò ancora minorenne nella Brigata Proletaria, la prima composta interamente da operai, e salì a combattere sul Carso. Venne poi deportato nei campi di concentramento nazisti assieme ai genitori e alle sorelle e si salvò per le forze della giovinezza e per il suo sapere di operaio.
Leggiamo con emozione del partigiano Giovanni Marzona, di Villa Santina, che da ragazzo si arruolò tra i partigiani perché a scuola aveva imparato cosa significava l’ingiustizia: le maestre che non interrogavano i figli dei fascisti ma gli davano ottimi voti, contribuendo a formare una futura classe dirigente incolta e prepotente. Marzona che vide i dromedari sulle montagne della Carnia, combatté i cosacchi, ed ebbe salva la vita dai Rom.
E c’è un’altra cosa che “Noi, partigiani” ci mostra attraverso queste testimonianze: che gli eroi poveri, quelli che minimizzarono i loro gesti e il loro coraggio per una modestia imparata in case decorose, finita la guerra non ebbero tributi d’onore e nemmeno ringraziamenti, ma dovettero faticare per costruirsi una vita, spesso epurati nei posti di lavoro da capi e dirigenti dal passato pieno di ombre ma che si erano affrettati ad accodarsi ai cortei della Liberazione. E anche questa è una lezione da non dimenticare. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo