Nuovo viaggio di Clint Eastwood dentro l’anima dell’America

Gianmatteo Pellizzari



Se proprio dobbiamo appiccicare un’etichetta al bellissimo “Cry Macho”, e scartiamo subito le noiose declinazioni western che gli stanno piovendo sopra (western moderno, western esistenziale, western flemmatico, western senile, addirittura!), la via del road movie ci sembra decisamente la più percorribile. Non perché il film sia privo di connotazioni western, anzi, ma perché stiamo parlando di Clint Eastwood. E il cinema di Clint Eastwood, soprattutto il cinema della sua lunga (splendida) maturità, non è mai un puro esercizio di genere: è sempre un viaggio. Dentro l’anima dell’America e non solo.

Road movie geografico e simbolico, appunto, “Cry Macho” racconta la storia di Mike Milo, vecchio allevatore di cavalli con un luminoso passato da superstar dei rodei e una grigia quotidianità senza gloria. Siamo in Texas, corre l’anno 1980. La vita di Mike, prima segnata da un incidente e poi dall’alcol, si trascina stancamente e non pare destinata a grandi svolte. Non pare. Un giorno, infatti, l’ex capo Howard Polk bussa alla porta per riscuotere un debito: Mike dovrà andare in Messico e riportargli sano e salvo il figlio Rafo, giovane sprovveduto che campa rischiosamente di piccoli furti e di scommesse clandestine. Riuscirà il nostro burbero cowboy a onorare il sottotitolo italiano, “Ritorno a casa”, proteggendo Rafo dalle insidie del mondo?

“Cry Macho”, oltre a mischiare sapientemente asciuttezza e sentimentalismo, pedagogia e redenzione, epica e malinconia, ci regala un godimento cinematografico supplementare e non certo scontato: vedere ancora in sella mister Clint Eastwood (protagonista, regista, produttore!) dopo le recentissime fatiche di “The Mule” e “Richard Jewell”. Siamo onesti: cos’altro possiamo pretendere da questo roccioso, magnifico, invulnerabile fanciulletto del 1930? —

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