«Ogni migrante è una storia»

di FEDERICA MANZON
Cosa ci aspettiamo che accada quando leggiamo i migliori romanzi? Vorremmo essere catturati da una storia, ritrovare un pezzetto di noi in qualche personaggio, ma soprattutto vorremmo ampliare i nostri confini, respirare meglio, ricordarci che c'è un mondo oltre le recinzioni che ci fanno ripiegare su noi stessi e sulle nostre paure.
E questo accade con "Piccolo paese" (Bompiani, pagg. 194, euro 16, traduzione di Mara Dompè), il romanzo di esordio di Gaël Faye, scrittore trentacinquenne nato in Burundi e fuggito in Francia allo scoppio della guerra civile in Rwanda. Un libro che ha conquistato il pubblico e la critica francesi salendo ai primi posti delle classifiche e vincendo i premi più prestigiosi. Un caso internazionale pubblicato in sedici paesi.
In questi giorni Gaël Faye è in Italia per presentare il romanzo che solo in apparenza è la sua storia: «Anche se Gabriel, il mio protagonista, nasce come me in Burundi da padre francese e madre ruandese, non è romanzo autobiografico - precisa -. Avevo bisogno dell'immaginazione per ricostruire davvero le sensazione, gli odori, i colori di un luogo che ho conosciuto da bambino».
Perché il paese che racconta è "piccolo"?
«Perché è una storia dell'infanzia vista attraverso gli occhi di un bambino. Perché "piccolo" è un aggettivo affettivo, e questo libro è anche una dichiarazione d'amore per il paese dove sono nato. E perché il Burundi è a tutti gli effetti un piccolo stato, grande più o meno quanto la Bretagna».
Lei è anche un musicista affermato. Una sua canzone ha lo stesso titolo del romanzo, due modi diversi di raccontare...
«La canzone ha sempre una cornice: la struttura, la melodia, il ritmo, i ritornelli. E poi ha a che fare con l'istante, la capacità di cogliere l'attimo preciso. Il romanzo invece permette tutte le libertà e le follie. Solo in un romanzo è possibile dare vita a un mondo intero».
La situazione politica in Burundi e il genocidio in Rwanda sono temi di grande complessità, eppure il suo romanzo li mette in scena con grande limpidezza...
«Il Burundi è fatto di sussurri ed enigmi, di fratture invisibili e sospiri, sguardi carichi di significati che quando ci vivevo non comprendevo bene. È composto da diverse etnie: i pigmei, gli hutu e i tutsi. Vivono nello stesso paese, hanno la stessa lingua e lo stesso dio, eppure si fanno la guerra».
La nonna e la madre di Gabriel sono rifugiati ruandesi, in Burundi non si sentono mai a casa, perché?
«Il Burundi non ha mai davvero accolto i ruandesi in fuga dai genocidi, li ha tenuti in una specie di segregazione. Non ci si può sentire a casa se non si è ben accolti. Una vera integrazione è possibile solo a partire dall'atteggiamento di chi ospita. L'Europa dovrebbe tenerlo a mente: non si può chiedere a chi scappa dalla guerra, a chi ha perduto ogni cosa, di uniformarsi a regole e abitudini nuove se prima non gli offriamo accoglienza».
Gabriel adulto guarda alla tv i barconi di migranti in rotta verso l'Europa e pensa «queste immagini ci mostrano la realtà, non la verità». Qual è la verità?
«La realtà è che noi vediamo delle persone in fuga e affibbiamo loro delle etichette: migranti, rifugiati, clandestini. La verità è che ognuno di loro ha una propria storia. Ho scritto questo libro perché, quando sono arrivato in Francia, avevo tredici anni e per tutti ero semplicemente il ragazzino scappato dalla guerra. Invece io ero un ragazzino che aveva avuto una casa, un posto a cui apparteneva e in cui si riconosceva, degli amici, una vita come tutti. Ecco, questa credo sia la verità, la storia che ognuno di noi ha alle spalle, la propria lingua, la propria cultura».
"Piccolo paese" è anche un romanzo di formazione, il passaggio di una linea d'ombra...
«Sì, per Gabriel arriva un momento in cui smette di essere un bambino privilegiato e fiducioso verso il mondo. Inizia a vedere l'Altro come un pericolo, a creare quella frontiera invisibile con l'esterno che separa amici e nemici. È una cosa che gli adulti trasmettono e che si impara con facilità. Accade quando cominciamo ad avere paura».
L'Europa sta andando in questa direzione?
«C'è la tentazione. Ci sono movimenti che cercano di dare forza ai nostri nemici interiori ed esteriori. Bisogna rimanere vigili, anche in una società in pace non dobbiamo dimenticarci che il rischio di un genocidio disumanizzante è sempre alle porte».
Quando i suoi amici si schierano in guerra, Gabriel vuole rimanere neutrale, perché non ci riesce?
«Si può rimanere neutrali in tempo di pace. In un paese in guerra non si può pensare di uscirne indenni, di preservare il candore».
Gabriel adulto torna in Burundi per recuperare un baule di libri lasciati per lui, cosa rappresenta quell'ultimo lascito?
«Nell'infanzia i libri sono per Gabriel un rifugio e una finestra per non rimanere imprigionato in confini che si stavano facendo sempre più stretti. È quello che fanno i libri: ci permettono di andare verso l'Altro, verso lo sconosciuto, senza paure. E di conoscerci più profondamente. Sono grato ai libri per questo, sono stati la mia bombola d'ossigeno».
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