“On the road” da Trieste alla Croazia in quattro per conoscersi e ritrovarsi

«Di nuovo in strada, dove a volte ho bisogno di tornare». E se in origine la storia di “Tutto il mio folle amore”, il suo nuovo film, era ambientata negli Stati Uniti al confine col Messico, a Gabriele Salvatores serviva un posto desertico. Quel deserto quindi, e quella strada, sono diventate, grazie ai suggerimenti preziosi della Friuli Venezia Giulia Film Commission, la Croazia e prima ancora il Carso sloveno e Trieste: location evocative, stranianti e aderenti a perfezione allo spirito di quello che sembra essere il film più libero e anarcoide del regista Premio Oscar da molti anni a questa parte.
Al centro del racconto, Vincent (la rivelazione Giulio Pranno): porta il nome di una canzone di Don Mac Lean, è nato a Trieste e vive i suoi sedici anni con qualche difficoltà in più dei suoi coetanei. Immerso in un mondo tutto suo, è un ragazzo che «vede le parole» ma non sa farle proprie ed esprimerle. Di conseguenza, la madre Elena (Golino, "nuotatrice indolente", mai così bella e intensa) e il compagno Mario (Abatantuono, ottimo a garantire la controparte più lieve e ironica), lo hanno amorevolmente chiuso in una sorta di guscio protettivo, tra terapie a cavallo e istituti di sostegno. Una sera però, Vincent farà una conoscenza inattesa: a piombare nella splendida villa di famiglia sarà il vero padre, uno scalcinato cantante col vizio della bottiglia alla vigilia del suo tour nei Balcani (Santamaria, crooner in gran spolvero).
La prima tappa? Trieste, Terrazza dell'Ausonia, dove prima dell'irruzione casalinga si è esibito cantando "Marinai donne e guai" in un ballo dal sapore lievemente grottesco. Ma questo "Modugno della Dalmazia", amabilmente battezzato "il merda" dal papà adottivo, batterà presto in ritirata appena compreso dell'autismo del figlio. A sorpresa, però, quel piccolo gesto di responsabilità balenato sotto i fumi dell'alcool segnerà l’inizio di una grande avventura tra i due, dove il viaggio sarà terreno - bizzarro, sconfortevole, talvolta pericoloso - per avere finalmente l'occasione di conoscersi l'un l'altro. E anche per Elena e Mario, lanciatisi nelle stesse strade alla ricerca di Vincent, sarà tempo di dirsi quello che non si erano mai detti.
Ancora una situazione di essersi smarriti, o di stare per perdersi, cui segue un mettersi "on the road" per ritrovarsi: un tema caro a Salvatores, “Marrakech Express” e "Turnè" in testa, che anche qui parte da una situazione cittadina per poi perdersi verso il nulla. Stavolta gli amici, in gruppo o in coppia che fossero, lasciano il posto a un padre e un figlio, in un rapporto che nella sceneggiatura di Salvatores, Contarello e Sara Mosetti trova punte di lirismo e commozione autentica. Dove l'autore invece eccede è nel cercare a tutti i costi quella dimensione surreale che troppo spesso sconfina nel sogno, amplificata dall'eccellente lavoro di Italo Petriccione alla fotografia. Se pigia eccessivamente sul pedale folklore - sembra che la Croazia sia popolata di cavallerizze, macchiette e comuni che vivono di baratto - d'altronde non cerca il realismo ma l'immaginifico: e allora sì che ritrovarsi a Otocici a cantare "Tu si na cosa grande" ai bordi di una piscina con una fauna umana che definire caricaturale è poco risulta funzionale allo spirito della sua drammaturgia. Viceversa su altri aspetti Salvatores non indugia ed è lieve, come nell'incontro al confine con i flussi di disperati, o la baracca costellata di foto di donne e uomini migranti: è solo un momento, ma l'accenno è ispirato e commuove, coerente al tono dolceamaro del film. —
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