Paolo Nori e Dostoevskij «Ha aperto in me una ferita che sanguina ancora»

l’intervista
«Il senso di leggere Dostoevskij io non lo so, so che Dostoevskij, anche se non lo leggiamo, ci ha detto, nelle cose che ha scritto, come siam fatti prima ancora che venissimo al mondo». Così Paolo Nori racconta fin dalle prime battute del suo ultimo romanzo “Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij” (Mondadori, euro 18,50), nella rosa dei ciqnue finalisti del 59° Premio Campiello, l’identità nel sentire e la prossimità umana con il più grande tra gli autori russi, capace come pochi di creare personaggi assoluti in grado di lasciare in noi una traccia profonda, quasi una ferita, al di là del tempo.
Nei ringraziamenti finali del suo libro lei cita Antonio Pennacchi, da poco scomparso.
«Mi ha convinto a provare a scrivere questo libro. Pennacchi è stato molto generoso, con me e con le cose che ho scritto prima di Sanguina ancora, ma mi ha anche detto che avrebbe voluto che facessi qualcosa di “più grande”. Io non capivo cosa volesse, mi sembrava di fare delle cose grandi abbastanza. Quando poi, nel 2018, mi sono accorto che il 2021 sarebbe stato il bicentenario della nascita di Dostoevskij, e mi è venuta in mente la possibilità di scrivere questo romanzo, mi sono detto che questa, forse, era la cosa grande che intendeva Pennacchi, e ho cominciato a scrivere».
Il suo libro sembra essere una sorta di Zibaldone di leopardiana memoria, dove ragionamenti, citazioni, riflessioni, aneddoti personali si intrecciano alla vita e alle opere di Dostoevskij, avviluppando il lettore in una sorta di rete narrativa. Lei come lo definirebbe?
«Lo definirei un romanzo. Se penso a qual è, tra tutti i romanzi che ho letto, il romanzo più romanzo, penso a Guerra e pace. La critica principale che fecero a Guerra e pace i contemporanei di Tolstoj, quando è uscito, negli anni ’60 dell’Ottocento, è il fatto che non era un romanzo, perché metteva insieme personaggi realmente esistiti, come Kutuzov, Napoleone, e Alessandro I, e personaggi di fantasia, come il principe Andrej e Pierre Bezuchov. Allora io credo che i romanzi contemporanei, ai contemporanei forse non sembrano proprio dei romanzi-romanzi, e che quelli che a noi, contemporanei, sembrano incontestabilmente dei romanzi, siano libri costruiti su modelli ottocenteschi, forse».
Il racconto della vita e delle opere di Dostoevskij si intreccia in questo libro con la sua vita personale, talvolta sembrano diventare carne della sua carne… Quali sono i personaggi di Dostoevskij che ama di più?
«Non sono uno studioso, sono un appassionato: gli studiosi scrivono cose per studenti, il mio romanzo non è da studiare, è da leggere, e per leggerlo non c’è bisogno di essere cultori della letteratura russa, né di aver letto una pagina di Dostoevskij. Il sottotitolo del libro è L’incredibile vita di F. M. Dostoevskij, e credo, davvero, che Dostoevskij abbia fatto una vita incredibile e che valga la pena di raccontarla indipendentemente dal fatto che lui sia uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Il personaggio che mi piace di più è la seconda moglie di Fëdor Michajlovič, Anna Grigor’evna. Quello più simile a me è l’uomo del sottosuolo».
Citando Rozanov, ha scritto che «Il miracolo della scrittura di Dostoevskij sta nell'eliminazione della distanza tra il soggetto (il lettore) e l’oggetto (l’autore)». Tra Nori lettore e Dostoevskij autore c’è mai stata questa distanza?
«Il primo romanzo russo che ho letto è Delitto e castigo, avevo 15 anni, e mi ricordo il momento in cui ho visto che Raskol’nikov, il protagonista, si chiede “Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone?” e io mi son chiesto “E io, sono come un insetto o sono come Napoleone?” e ho avuto l’impressione che quel libro, pubblicato 112 anni prima a 3.000 chilometri di distanza da me avesse aperto in me una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare, da qui il titolo del romanzo, e no, quella distanza non c’è mai stata». —
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