Paolo Zellini, i numeri la mia via perfetta per definire la realtà

La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini nel nuovo libro del docente di origine triestina

di ALESSANDRO MEZZENA LONA

La matematica non è solo numeri, formule, teoremi. Può spalancare spazi infiniti alle domande che, da sempre, tallonano l’uomo. Tanto da portare un docente e scrittore come Paolo Zellini ad andare oltre l’orizzonte dei calcoli. Per cercare nelle intuizioni dei grandi filosofi del passato le risposte ai concetti di realtà, esistenza, astrazione.

Docente all’Università di Roma Tor Vergata, triestino di origine, autore di libri importanti come “Breve storia dell’infinito”, “Gnomon”, “La ribellione del numero”, “Numero e logos”, ritorna in libreria nella Piccola Bibliooteca Adelphi con un saggio che riuscirà a conquistare anche chi, la matematica, l’ha odiata con tutto il cuore sui banchi di scuola. Si intitola “La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini” (pagg. 258, euro 14). Apre pagine di riflessione, limpide e lucide, su un tema dal sottile fascino: i numeri sono un’invenzione della mente o una scoperta con cui la mente stessa accerta l’esistenza di qualcosa che è nel mondo?

Zellini non si accontenta del ragionamento dei grandi scienziati. Si spinge alla ricerca delle origini del pensiero. Quando i numeri e le idee stavano perfettamente a loro agio dentro lo stesso insieme. E allora, per rispondere a questa e altre domande che hanno impegnato i matematici di tutti i tempi, gli vengono in aiuto Eraclito e Aristotele, . Goethe e Platone, Newton e Zenone di Elea.

«Avevo vent’anni - racconta Paolo Zellini - e mi ponevo già la domanda: i numeri sono un’invenzione della mente o una scoperta con cui la mente accetta l’esistenza di qualcosa che è nel mondo? Un giorno ha avuto la fortuna di conoscere Elémire Zolla, lo scrittore e filosofo che aveva dedicato studi approfonditi alle religioni. Ed è stato lui a suggerirmi alcune letture importanti».

Per esempio?

«Tommaso d’Aquino. Mi ricordo che mi suggerì di concentrarmi su un articolo in cui si parlava del concetto di insieme nel suo pensiero. Da lì sono partito per effettuare una ricerca all’indietro. Mi interessava mettere a fuoco l’origine, i fondamenti di certi concetti matematici che mi seguivano da quando avevo conseguito la laurea».

Ma non li aveva ancora approfonditi?

«No, perché nelle lezioni all’università si punta tutto sull’aspetto formalistico della matematica. Tecnico. La ricerca storica si può fare, ma solo se riguarda le materie d’esame».

Cosa l’ha colpita di più?

«Per esempio, ho scoperto il problema dell’infinito, che può essere attuale ma anche potenziale. Che i greci avevano un’idea di infinito completamente diversa dalla nostra. Che certi concetti cambiano, spesso si rovesciano con l’andare del tempo. Questi e altri motivi mi hanno spinto a indagare. Tanto che adesso, quando mi trovo davanti a una formula, mi chiedo sempre: da dove viene? Anche per capire dove si va a finire».

Al tempo dei presocratici scienza e filosofia erano una cosa sola?

«Le radici del pensiero filosofico e quelle del pensiero matematico si combinano in un modo sorprendente. Ci sono formule, schemi computazionali della matematica, che si ritrovano anche nella filosofia. A volte uno legge Aristotele e scopre che usa gli stessi termini di uno scienziato».

Oggi non c’è più questo rapporto di interscambio?

«Lo studio degli algoritmi, ormai, cresce per conto suo. Non ha bisogno di uno sguardo retrospettivo sulla filosofia. È più un’esigenza dell’anima di chi lavora con le formule. Perché sarebbe giusto ricordarsi, ogni tanto, che le motivazioni più profonde dei calcoli non risultano dai numeri stessi».

Qualcuno cerca, però, di dimostrare che la conoscenza del passato ha poco da insegnarci...

«E sbaglia. Perché io, quando devo capire meglio qualche problema, non mi fermo agli studi più recenti sull’argomento. Cerco una bibliografia, mi spingo nel passato».

Del resto, il suo libro esce nella Piccola Biblioteca Adelphi insieme alle opere di scrittori, pensatori, saggisti...

«Purtroppo la scuola ci ha abituati a imparare la matematica in maniera traumatica. Quanti ex studenti odiano formule e numeri proprio perché sui banchi di scuola hanno dovuto impararli sotto la spinta della paura? Non è colpa degli insegnanti, ovviamente: il problema è che bisogna innestare certi ragionamenti nel nostro cervello. A volte può risultare un’operazione violenta, per la sua astrattezza, che non ci trova consenzienti».

Com’è arrivato alla matematica?

«Ho frequentato le elementari a Roma, le medie e il ginnasio a Milano e le ultime tre classi del liceo classico di nuovo a Roma. Mio pspà lsvorava alla Rai, ogni tsnto doveva cambiare sede e la famiglia lo seguiva. Poi, a un certo punto, è rientrato nella sua Trieste».

All’università cos’ha scelto?

«In un primo tempo mi sono iscritto a Fisica a Roma. Poi sono passato a Matematica e sono contento di aver fatto questa scelta. Dopo la laurea mi sono trasferito a Pisa, nei primi anni ’70».

Trieste l’ha vista poco?

«In effetti sì. Però sono figlio di genitori triestini, sentivo parlare il dialetto a casa. Sono abituato a certe parole che per altri, magari, risultano difficili da capire. E non le ho dimenticate. A un certo punto, mi ha riavvicinato alla città una proposta di Claudio Magris».

Quando?

«Era stato creato un laboratorio di discipline umanistiche e scientifiche nell’ambito della Sissa. Parliamo dei primi anni ’90. Ho raccolto questa proposta con grande entusiasmo. Magris lo conoscevo, all’inizio, soltanto per lettera. Mi aveva scritto dopo la pubblicazione della “Breve storia dell’infinito” confessandomi il suo interesse per i temi che affrontavo. In più, in quel periodo leggevo avidamente autori di lingua tedesca. In particolare Robert Musil».

Era ancora a Pisa?

«No, lavoravo già come matematico al Dipartimento dell’Università di Roma. Il laboratorio mi ha portato più spesso a Trieste. Quello strano ibrido tra letteratura e scienza lo trovavo davvero affascinante. Infine, nella mia città d’origine ho conosciuto anche mia moglie, Maria Carolina Foi».

Insegnava Analisi numerica a Roma Tor Vergata...

«Dal novembre scorso non insegno più. Però mi hanno dato il titolo onorario di Docens Turris Virgatae. Anche se questo non mi impedisce di stare a Trieste per lunghi periodi. Cosa che prima non avveniva».

Quando è nata la passione per la scrittura?

«Direi che è nata quasi in antitesi alla matematica. Credo di avere asasimilato, in quelche modo, lo stile di alcuni autori che ho amato molto. Per esempio, ricordo bene il periodo in cui cercavo di imitare la prosa di Theodor Adorno, il filosofo e musicologo della Scuola di Francoforte. Mi affascinava anche Elémire Zolla, di cui ho letto con grande interesse i saggi».

E poi?

«Bisogna seguire anche l’istinto. Che non si sa mai da dove arriva. Devo dire che l’amore per la scrittura è iniziato ben prima dell’università. Ben prima dei vent’anni. Le mie molte letture mi hanno sempre stimolato a cimentarmi con le parole. Però, devo dire grazie anche alla matematica».

In che senso?

«Perchè mi ha aiutato a raffinare il mio modo di scrivere. Se non avessi avuto la matematica, il mio stile sarebbe molto più oscuro. La nitidezza, la brevità, sono la grande lezione che ho ricevuto dal mondo dei numeri».

alemezlo

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