«Per due mesi la parola Trieste come un ritornello nella testa»

Il viaggio #gironellastoria conclusosi ieri nella mia Trieste è stata l'esperienza che più di ogni altra ha cambiato la mia personale percezione di ciò che la Grande Guerra fu. Una tragedia mondiale che per la prima volta unisce nel ricordo un continente intero.
Io non ho fatto la guerra. Sono stato in giro per due mesi. Per loro, per chi quel conflitto non lo volle ma fu obbligato a parteciparvi. Per chi sentiva la parola Trieste come un costante ritornello. Per chi non sapeva neanche dove fosse la mia città. Per chi vi entrò il 3 novembre del 1918. Per quel “picio ‘scoltime mi” del mio bisnonno. Per quel presente innamorato del passato.
A Trieste ci arrivo verso sera, quando le nuvole si comportano male e quando realizzo finalmente di essere a casa. L’ultima settimana è stata lunga ma forse la più bella. A Cima Sappada, incontro Emanuele Pachner e Francesco Pomaré i quali nel 2002 han messo in piedi il Piccolo Museo della Grande Guerra. «È grande come un stanza, niente di più - mi dice Francesco - anche se i pezzi che abbiamo sono delle piccole chicche».
Ed è reale. Non servono spazi grandi, scatoloni riempiti di denaro che andrà a incrementare le sanzioni europee sul suo mancato utilizzo ancora meno. Cima Sappada diventa così teatro per scoprire i furti su commissione che interessano i musei. «Si sa che ogni tanto da qualche museo spariscono pezzi importanti», mi dice Pomarè. Quando da Sappada vado a Timau sulle Carniche diventa chiaro che il fronte assume unicità. Il paese fa rima con Pal Piccolo, Freikofel e Pal Grande. Una volta conquistate le vette, gli eserciti cominciarono a fortificarle. Quando arrivo in cima al Pal Piccolo mi sembra di esser in un labirinto. Il fronte è un'infinita trincea. Si estende al Museo, alle scaramucce polemiche tra le diverse realtà che popolano questa memoria e alla visita di Scalfaro del 1 ottobre 1997, per chiudere con le decine di targhe scalpellate via dai luoghi originari. La sensazione di Timau è quella di una guerra mai finita.
Sul Pal Piccolo gli austriaci si muovono con organizzazione. Nel luogo dove il triestino Ruggero Timeus perse la vita, il pullulare di trinceramenti improvvisamente tradisce la sua confusione, nei dedali grigi, così silenziosamente umidi. Freikofel significa “cima libera” mi racconta Luca Piacquadio, direttore del Museo all'aperto di Timau e impegnato assieme ai volontari dell'Associazione Nazionale Alpini di Verona al recupero delle trincee al passo Cavallo. «Il centenario per noi non rappresenta un'occasione da monetizzare. Sarò anche nazionalista ma quando vedo ciò che fanno a Caporetto con i nostri morti mi vengono i brividi».
A me no. Il Kobariški Muzeum dovrebbe essere laico e obbligatorio pellegrinaggio per tutti. Željko Cimpric è il curatore del museo che ogni anno ospita più di 50 mila visitatori. L'ho incontrato a Ypres e mi ha detto: «vieni quando vuoi». Potresti scambiarlo per intellettuale, artista, musicista, architetto, accademico, di quelle persone che sembrano in grado a far tutto e una lampadina, per fortuna, riescono ancora a sostituirla».
Lo rincontro quando da sella Carnizza, alla fine della val Resia assieme a mio fratello, scendiamo verso le rive dell'Isonzo. Seduti in cima al sacrario militare che ospita le salme di più di 7000 caduti italiani incolliamo ciò che fu a ciò che è. «Con la cris. i gli italiani che vengono a Caporetto sono calati». Poi mi guarda e in fondo all'intervista mi spiega che ha un desiderio: «Mi piacerebbe riuscire a pubblicare le testimonianze dei soldati italiani di Caporetto in sloveno. E spero di avere il tempo per farlo».
Da Kobarid scendo verso la zona dove l'esercito italiano si ritirò. Da Stupizza la valle del Natisone mi offre la possibilità di cambiare pelle e di gioire alla mancanza di promozione turistica di massa. Luoghi come Cicigulis, la chiesetta di santo Spirito e la vecchia strada militare che conduce a Torreano fino al bar sport del paese sono luoghi per fortuna dimenticati. «Sei tu san Nicolò?» mi chiede un avventore del bar mostrandomi un A4 preparato con cura da Raffaella Vidal che mi ospita in paese. Il tempo di riposare qualche ora e già mi ritrovo sulle alture dietro Cormons, il sentiero delle Alte vigne.
Il giorno successivo, sotto il Brestovec, compare Marco Mantini. Uno dei 18 esperti siti Grande Guerra nella nostra regione. «Il san Michele è il monte degli ungheresi. Vengono qui anche in giornata, depositano dei fiori e se ne vanno».
San Martino del Carso, poi il Sei Busi, dolina dei 500, parco tematico di Monfalcone, la costruzione dell’eroe Enrico Toti. La testa è un frullatore. La Protezione Civile di Monfalcone che mi ospita degli angeli. L'arrivo e la vista del mare dal Carso due mesi dopo il Canale della Manica ungarettiana illuminazione. «Ogni tanto trovo ancora dei bossoli nel mio orto» così Paul Tout, ultimo esploratore del Carso di quella Malchina che parla inglese e che preserva le sue bellezze meglio di quanto chi per diritto di nascita faccia. «La Croce Nera austriaca ha un occhio di riguardo per questo piccolo cimitero» mi racconta Roberto Todero dell’Associazione Zenobi durante la visita al campo santo militare di Prosecco. «Una cosa molto pericolosa in questo centenario è la mancanza di storicizzare, tornare a ragionare con la testa di quella volta». Il sentiero che corre parallelo alla strada Vicentina mi regala Trieste dall’alto. Così l'arrivo in piazza Unità è tornare a casa.
Così mi rifugio dentro a un'infinita via dei papaveri da Londra a Trieste, gli stessi che almeno una volta al giorno mi han ricordato il silenzio degli eserciti analfabeti. Quel silenzio, maledetto dalla memoria e consacrato nel rispetto, che ho voluto far mio per sentire un'ultima volta quella voce "picio, scoltime mi".
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