Per il Maestro la lirica era un kolossal il suo Otello la prima opera in diretta tv

Come regista d’opera, Franco Zeffirelli ha avuto la ventura di diventare un classico da vivo, forse perfino «il» classico, come se una certa tradizione di teatro lirico all’italiana si incarnasse in lui, o magari con lui oggi finisca. Ma solo per chi si rifiuta di ammettere che il teatro, tutto, parlato o «cantato» che sia, è un’espressione del suo tempo, non la teca sotto la quale si cerca di fermarlo.
Zeffirelli «nasce» da Luchino Visconti, che fu il primo a porsi il problema di come affrontare un repertorio sempre meno contemporaneo e sempre più del passato. La sua risposta fu non la ricostruzione archeologica delle improbabili vicende dei libretti, ma di come le avevano reinventate i grandi operisti sette-ottocenteschi. Per intenderci: non i Tudor di Anna Bolena com’erano davvero, ma come li vedeva la sensibilità romantica di Donizetti.
Il giovane Zeffirelli, con un gusto infallibile come quello del Maestro, beh, quasi, e in ogni caso non ancora vittima dall’horror vacui, si mosse in quella direzione con esiti da subito già memorabili. Ecco allora La figlia del reggimento come stampa di Épinal, Il turco in Italia della Callas fra le gouache del ’700 napoletano, la prima Aida della Scala, quella con le scene della De Nobili come sogno colonialista della belle époque, la Traviata black and white del Covent Garden. Non erano affatto, allora, spettacoli «tradizionali».
Ma erano così belli che, in poco tempo, lo sarebbero diventati. Fino alla leggendaria Bohème della Scala del ’63, a oggi - credo - lo spettacolo d’opera più ripreso nel mondo, centinaia e centinaia di repliche a Milano e al Met e a Vienna, e ogni volta con centinaia e centinaia di comparse a due e quattro zampe in più. Finché, a tutt’oggi, alla Scala non si è più osato farne un’altra (notizia: una nuova Bohème arriverà il 7 dicembre 2022).
Intanto superFranco portava il suo teatro magniloquente e kolossal al cinema, dove si trovava benissimo. Specie La traviata, con la grande idea del Preludio di Violetta morente e tutto il resto dell’opera come flash-black di lei, in una mise en scène fastosissima con Teresa Stratas pallente e fragilissima (anche come cantante) e Domingo stranamente quasi biondo.
Il suo Otello diretto da Kleiber alla Scala il 7 dicembre 1976, fu la prima opera trasmessa in diretta dalla Rai, poi Zeffirelli lo rifece meno bene anche al cinema. Zeffirelli era diventato un po’ vittima della sua ipertrofia decorativa.
L’approdo all’Arena, per cui realizzò molte delle sue produzioni di corso più lungo, era inevitabile, e tuttora al Met scatta infallibile l’applauso quando si apre il sipario sul secondo atto della sua Turandot, con quattro-fontane-quattro, una Città proibita così clamorosa che sembrano due e folle di cinesi che nemmeno nella metropolitana di Pechino all’ora di punta. E dire che invece, quand’era costretto a rimpicciolirsi, Mastro Franco sapeva farlo benissimo: vedi l’Aidina nel teatrino di Busseto, intima e misteriosa come poche.
Venerdì andrà in scena all’Arena la sua Traviata postuma, e speriamo che una cinica operazione commerciale (che regia poteva mai fare, un 96enne in sedia a rotelle?) si trasformi in un omaggio a un Grande.
Perché Franco Zeffirelli è stato un grande artista. Anche nella sua eroica, perdente illusione di fermare il Tempo. —
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