Quando Venezia appariva una perla di luce pura a chi faceva il Grand Tour

di Roberto Bertinetti
«Venezia è la perla d’Italia. Quando si volge lo sguardo a questi palazzi marmorei, a questi ponti, a queste chiese, a questo merletto stupendo di colonne, balconi e finestre, si comprende perché veniamo tutti qui», sostiene Hippolyte Tayne. Gran parte degli stranieri concordavano con il giudizio dell’intellettuale francese.
Lo dimostra Attilio Brilli nel capitolo che dedica alla città lagunare nel suo “Il grande racconto del viaggio in Italia” (il Mulino, 451 pagine, 48 euro), nel quale ricorda che Venezia era meta prediletta da chi attraversava le Alpi perché, commenta Henry James, «il puro e semplice uso della vista tra calli e canali consente di raggiungere un eccellente grado di felicità». Tra chi ne loda “la magia della luce” troviamo Goethe, Turner, i fratelli Goncourt, Nietzsche. L’entusiasmo per Venezia è unanime, a differenza di quanto accade per altri luoghi.
È abitudine antica quella del viaggio alla volta dell’Italia, documenta Brilli in saggio illustrato in maniera davvero magnifica con decine di tavole a colori. Il Grand Tour che ha nell’Italia una meta obbligata diviene infatti consuetudine a partire dal Seicento e in breve si afferma come “strumento di buona educazione” per tutti gli aristocratici e gli uomini di cultura europei.
«Omero ci presenta Ulisse come il più saggio dei greci poiché aveva viaggiato molto e visto costumi di tante genti. Anche il giovane d’oggi deve arricchire la propria mente mediante la gravità e le massime di un paese che ha reso civile il mondo intero e ha insegnato all’umanità che cosa significhi essere uomo», osservava Bacone all’inizio del XVII secolo. Il consiglio del filosofo divenne presto una sorta di imperativo morale per le classi dirigenti che non potevano dirsi tali se non avevano fatto tappa, oltre a Venezia, anche a Roma e Firenze.
Le grandi famiglie erano in grado di farsi scortare da un vero e proprio corteo. William Beckford partì da Londra accompagnato da un precettore, un medico, un musicista, un maestro di pittura e un congruo numero di servitori, il conte di Burlington aveva al seguito circa quindici persone tra le quali un pittore esperto di giardini, un palafreniere e un contabile. Il mezzo di trasporto solitamente usato era la carrozza e l’ostacolo più complesso da superare era costituito dalle montagne.
Nella seconda metà del Settecento era ancora in uso la tecnica di far scivolare i viaggiatori dall’alto dei passi per mezzo di slitte, alcuni fortunati ricorrevano a portatori come testimonia Gibbon: «Quattro lettighieri, a turno e senza un attimo di sosta, mi fecero superare molte leghe di sentieri e viottoli. L’ascesa è stata lenta e faticosa mentre sui pianori e in discesa correvano».
Gli itinerari mutano in relazione al punto di arrivo, anche se alcune mete vengono ritenute obbligate. Ecco il consiglio in proposito di una delle prime guide stampate nel Regno Unito: «Chi viaggia deve studiare bene e in anticipo le carte e disporre di trovarsi per gli ultimi giorni di carnevale a Venezia e per la Settimana Santa a Roma. Si eviti di farsi sorprendere a Roma durante la canicola e, se possibile, si torni a Venezia per la festa della Ascensione».
I percorsi appaiono identici nel corso dei secoli perché, spiega Brilli, nessuno andava a visitare luoghi i cui nomi non fossero sulla bocca di tutti nell’intera Europa. Al ritorno al casa, poi, moltissimi sintetizzano la loro esperienza in volumi che hanno un buon pubblico. All’inizio del Settecento Addison, uno dei più influenti intellettuali londinesi, afferma “non ci sono libri dai quali traggo maggior diletto di quelli che narrano di viaggi”.
L’avventura, quasi sempre a lieto fine, dell’incontro con bande di briganti, conferisce un’aura romanzesca al racconto dei viaggiatori. I più immaginifici scorgono covi briganteschi in ogni anfratto vicino alla strada, mentre lontani falò diventano segnali di malandrini e qualsiasi bosco il luogo perfetto per un agguato di spietati tagliagole.
Il conte Leopold Berchtold consigliava nel 1787: «I viaggiatori non dovrebbe consentire agli sconosciuti di indugiare, con un qualunque pretesto, nei pressi della carrozza. Nei luoghi malsicuri è bene far sistemare i bauli nella parte anteriore della vettura dove è possibile accedere in ogni momento».
In realtà, documenta Brilli, gli assalti condotti contro gli stranieri fanno notizia in ragione della loro rarità. Le bande, presenti soprattutto sugli Appennini e nel Lazio preferiscono sequestrare e rapinare possidenti locali piuttosto che stranieri di cui non conoscono la consistenza patrimoniale.
Se le lodi delle bellezze architettoniche sono unanimi, ben radicati appaiono i pregiudizi sugli italiani e gli stereotipi sul loro conto. I giudizi negativi si fondavano su una teoria climatica messa a punto da Ippocrate e ripresa in epoca illuminista.
Fu Montesquieu a spiegare che chi deve sopportare per gran parte dell’anno temperature fredde tende per natura a una maggiore laboriosità, possiede uno spiccato senso dell’ordine, ha il perfetto controllo dei sensi, mentre coloro che vivono nei climi caldi sono pigri e inetti, vanesi e approssimativi in ogni loro azione.
È quindi Stendhal nel 1817 a scrivere che un essere umano si presenta sempre come il prodotto del clima della sua terra. Verso gli italiani c’è spesso un atteggiamento di disprezzo. Il poeta Shelley può annotare di aver incontrato “solo uomini che assomigliano ai componenti di una tribù di schiavi ottusi e sciamannati”, John Ruskin nel 1845 paragona la penisola al teschio di Yorick pullulante di vermi e Zola giudica l’Italia un pericolo per l’Europa a causa, dice, della decadenza morale che la devasta da secoli.
Aristocratici e intellettuali preferirono diminuire le loro visite oltre le Alpi a cominciare dalla parte finale del XIX secolo e spostarsi verso Oriente, mentre muoveva i primi passi il turismo organizzato che portava all’estero i borghesi. Il Grand Tour aveva aperto la strada, indicando gli obiettivi e l’importanza di un soggiorno in Italia. Brilli ne racconta la storia con incantevole maestria, riassumendo le esperienze di uomini e donne che si formarono durante viaggi di cui conservarono il ricordo per l’intera vita.
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