Quando Willy rubava i romanzi alla giovane e inesperta Colette



Che fossero le tele dei bambini con gli occhioni di “Big Eyes” o le pagine premiate con il Nobel per la letteratura nel recente “The Wife”, il cinema ha spesso frequentato il tema dell’opera d’ingegno rubata da altri, spesso proprio dai più vicini e familiari. E se nel film di Björn Runge il soggetto era frutto di fantasia, con la sommessa moglie del futuro Nobel che si rivelava esser la vera autrice dei testi, più volte lo spunto è estrapolato dalla realtà, come nel caso dei coniugi Keane raccontato da Tim Burton, con la pittrice Margaret rimasta nell’ombra per una vita fino a denunciare la frode del consorte in tribunale. Reale è stata certamente l’ambiguità che ha segnato gli inizi, in letteratura, di una delle sue personalità più rivoluzionarie e anarchiche, oggi raccontata in “Colette” da Wash Westmoreland. Il regista di “Still Alice” è per la prima volta senza il suo co-autore e partner di una vita, scomparso per complicazioni della Sla, Richard Glatzer, che ha firmato soggetto e sceneggiatura. Proprio la scelta di Glatzer di concentrare lo script su quel significativo periodo della vita della scrittrice francese Sidonie-Gabrielle Colette e sul matrimonio – il primo, ne avrà altri due – con Henry Gauthier-Villars, noto come “Willy” ne fa il principale punto di forza del film. Il racconto della vita rutilante e eclettica dell’artista non viene quindi diluito in un biopic classico ma concentrato sul grande inganno dei suoi esordi: ne esce un’opera dagli accenti moderni animata da tematiche complesse, dalla lotta per emanciparsi e combattere la privazione di potere, alla ricerca dell’identità fino alla totale messa in discussione dei ruoli di genere. Ragazza di campagna senza un cent, arguta, curiosa, istintiva, Gabrielle non ci pensa un attimo a consegnarsi nelle braccia di Gauthier-Villars, fascinoso editore che la sposa e la immerge subito nella “Parigi elettrica” della divina Sarah Bernhardt: la sfrontata Belle Époque, milieu che farà sbocciare Colette soprattutto dal punto di vista artistico. Willy, spirito acuto e fiuto infallibile verso mode e gusti del momento, sarà solleticato a tal punto da certi racconti di gioventù della moglie da spingerla a metterli su carta: ecco Claudine, inquieta alter ego che conquisterà presto lettrici a vagonate. Pazienza se Gabrielle non si sente rappresentata e il ciclo Claudine esca a firma “Willy”: l’equivoco vende, le ripete lui. Sarà il tempo per rivendicare la sua arte e il suo nome, grazie anche alla frequentazione di personaggi coraggiosamente fuori dagli schemi. Fotografia, scenografia e costumi immergono mirabilmente nel clima dell’epoca, dal mondo rurale alla Ville Lumiere più sfavillante: il giardinaggio in abiti chiari e spumeggianti, i calessi nella campagna, le bici al Bois de Boulogne, salotti e teatri tratteggiati nei loro chiaroscuri sono gioia per gli occhi. Knightley è perfetta incarnazione, molto fisica, dello spirito onnivoro e goloso del mondo di Colette ma è soprattutto West a governare al meglio un personaggio strepitoso, magistralmente scritto nella sua stratificazione, senza ridurlo a mero sfruttatore della gallina dalle uova d’oro. Westmoreland condisce d’intelligente ironia, come l’indovinata “moltiplicazione” delle Claudine in giro per Parigi, spiritosa ma anche precorritrice della diffusione dei più moderni brand.

Colette. Regia di Wash Westmoreland con Keira Knightley, Dominic West, Denise Gough, Fiona Shaw

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