Il quartiere armeno di Trieste? Un mito senza fondamento
Un ordine di monaci era presente in città ma non costituì una comunità etnica. A sfatare questo mito in un libro è Giorgio Tumanischvili

Da sedici anni Trieste convive con un mito urbano: il cosiddetto quartiere armeno, sul colle di San Vito, dove avrebbe vissuto la comunità armena di Trieste. Una definizione affascinante, suggestiva, ma priva di radici storiche. Di fatto, nessuno aveva mai parlato di “borgo armeno” o “quartiere armeno” prima del marzo 2008, quando ad introdurre per la prima volta l’espressione fu la mostra organizzata dal comune di Trieste “Armeni a Trieste tra Settecento e Novecento”, suggerendo che l’area tra via Tigor, via Giustinelli e via Ciamician avesse in passato una «decisa connotazione armena».
Una tesi rilanciata addirittura nel 2019, quando nel catalogo bilingue della mostra aperta a Yerevan nel 2019 col titolo “La forma del colore: dal Rinascimento al Rococò. Capolavori dalla Galleria nazionale d’arte antica di Trieste” si legge: «A Trieste si sviluppa il cosiddetto borgo armeno, con case e giardini».
Con il compito di sfatare questo mito Giorgio Tumanischvili, un signore che abita da sempre in via Giustinelli e che si è sentito chiamare in causa, anche per motivi di discendenza famigliare, dalla costruzione di quella che per lui è una leggenda metropolitana. L’esito del suo lavoro è il libro “Il borgo armeno che non c’è” (Luglio editore, 117 pagg., 15 euro).
Questa idea, o meglio questo fattoide, come lo chiama Tumanischvili, nacque dall’unione affrettata di tre elementi reali ma insufficienti a definire un quartiere etnico: la presenza dei Padri Mechitaristi tra il 1773 e il 1810; la denominazione ottocentesca di Contrada degli Armeni, assegnata in ricordo dei monaci e non di una comunità; e il ritorno dei Mechitaristi nel 1846, culminato nella costruzione della chiesa di via Giustinelli. Tuttavia, nessuno di questi fatti indica l’esistenza di un insediamento armeno strutturato. I Mechitaristi erano un piccolo ordine religioso, non un centro di aggregazione civile. Nel Settecento, prima dell’arrivo dei primi monaci espulsi da Venezia nel 1773, gli armeni in città erano appena quattro. Anche Giacomo Casanova, che trascorse a Trieste una parte del suo esilio, alloggiato alla Locanda Grande dal 15 novembre 1772, ci ha lasciato un’idea di quanti armeni ci fossero in città. In una lettera del 20 maggio 1774 scrive che, per effetto della venuta dei monaci ribelli: «Questi secolari sono finora nel numero di trenta, mentre nell’anno passato non ve n’erano che quattro».
Una testimonianza autorevole arriva perfino da un articolo del 1889 della rivista armena Handes Amsorya: «A Trieste non ci sono mai stati tanti Armeni da poter costituire una comunità». Un individuo emblematico, Giorgio Giustinelli, di origine armena, rimase a Trieste fino alla morte nel 1850 e vendette parte dei suoi terreni ai Mechitaristi. Neppure nel 1913, consultando la Guida Generale di Trieste, emerge una presenza compatta: nelle vie considerate “armene” viveva un solo armeno, il gasista Garabet Mardicossian. Persino le case di proprietà dei Mechitaristi risultavano abitate da italiani, tedeschi e slavi.
L’“armenità” del rione, di fatto, si riduceva alla sola chiesa. Per Tumanischvili, il “borgo armeno” nasce dunque da una suggestione recente, che progressivamente si è trasformata in verità accettata. Dopo il 2008, l’idea è stata ripresa da istituzioni, mostre internazionali e persino dall’Ambasciata d’Italia in Georgia. Dal 2021 la Soprintendenza ha consacrato il concetto di “colle armeno”, rendendo ufficiale un fattoide che non trova riscontro nella documentazione storica”. Il risultato, conclude l’autore, è la costruzione di un frammento identitario immaginato, nato per evocazione culturale più che per realtà demografica. Un “borgo armeno che non c’è”, come l’isola di Peter Pan: seducente, evocativo, ma mai esistito davvero. —
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