Quella volta che Orwell dovette sparare a un elefante

Esce con Mattioli “Autobiografia per sommi capi”, che raccoglie molti scritti, alcuni inediti dell’autore inglese: dalla scuola alla Birmania, al lavoro di libraio



Certamente la forza morale e la lungimiranza visionaria dei suoi romanzi sono elementi così evidenti da rendere senza indugi George Orwell un autore fondamentale del Novecento. Le pagine di “1984” e “La fattoria degli animali” hanno talmente segnato il nostro immaginario collettivo da trasformare Orwell in un mito facendone perdere di vista, a tratti, la qualità della scrittura. È quasi una riscoperta, invece, soffermarsi proprio sulla sua grandezza di narratore e di costruttore di storie e di ritratti psicologici in occasione dell’uscita del libro “Autobiografia per sommi capi” (Mattioli 1885, pp. 268, euro 15) che raccoglie molti articoli e saggi di Orwell, alcuni dei quali inediti in Italia, tradotti da Francesca Cosi e Alessandra Repossi.

Si comincia dalla cronaca dei suoi studi al college di St. Cyprian nell’Inghilterra meridionale in cui subisce le umiliazioni e lo snobismo di docenti e compagni maturando un senso di inferiorità. Anni duri, di isolamento e pianti, per un dolore, quello che si prova durante l’infanzia, non facile da spiegare ma che a Orwell riesce in maniera straordinaria: “Un disperato senso di solitudine e di impotenza, di essere prigionieri non solo in un mondo ostile, ma anche in un regno del bene e del male le cui regole erano tali che di fatto per me era impossibile rispettarle”. Tra ragazzini privilegiati e punizioni spesso ingiuste degli insegnanti, quel mondo di inizio Novecento ancora pieno di tracce vittoriane mostra al futuro scrittore l’esistenza di vere e proprie caste basate sulla ricchezza delle famiglie. Il suo sguardo è lucido ed empatico quando sottolinea come i ragazzini non abbiano il senso delle proporzioni e delle probabilità: sono un concentrato di egoismo e ribellione ma non hanno accumulato abbastanza esperienza per basarsi sui propri giudizi e finiscono col credere fin troppo alla saggezza e al potere degli adulti.

Lo straniamento di Orwell è grande anche quando, qualche anno dopo, si troverà in Birmania con la divisa della polizia coloniale ad assistere a un’impiccagione. Una vita nel pieno del suo vigore veniva stroncata arbitrariamente come si trattasse di un normale compito amministrativo e a lui non restava che sfogarsi con una reazione quasi isterica, il riso. Toccherà proprio a lui qualche tempo dopo freddare con un colpo di pistola, in mezzo a una folla esultante, un elefante reo di aver devastato un bazar. Dopo il suo sparo l’animale subisce un cambiamento misterioso e terribile: “Non si mosse e non cadde, ma ogni tratto del suo corpo cambiò. Sembrava improvvisamente ferito, rimpicciolito, immensamente vecchio, come se l’impatto spaventoso del proiettile lo avesse paralizzato senza abbatterlo”. Della sua esperienza lavorativa in una libreria dell’usato in Inghilterra Orwell riporta osservazioni acute sui clienti che, pur avendo a disposizione un catalogo molto interessante, non sapevano distinguere un buon libro da uno cattivo. Cosa ne pensa dei recensori? Che per quanto possano essere coscienziosi nell’elogiare o condannare i libri facciano un lavoro da cialtroni: “Gettano il loro spirito immortale nella fogna un bicchiere alla volta”. Ma si dilunga anche su quali siano i passaggi per preparare un tè ideale e difende la tanto vituperata cucina inglese, specialmente l’aringa affumicata, il pudding e i panini dolci. Sottolinea l’antisemitismo sempre serpeggiante in Inghilterra e spiega come la bomba atomica non abbia prolificato solo a causa dei costi eccessivi, per concludere svelando cosa lo ha spinto a scrivere. —

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