Quelle donne di Hemingway

di ROBERTO CARNERO
La prima è Hadley, la moglie dei giorni "poveri e felici" che precedono la fama e il successo letterario, la Hadley del piccolo e freddo appartamento parigino, la stessa che, in un momento di distrazione, perde malauguratamente, e per sempre, la valigetta che conteneva i preziosi manoscritti del marito. Poi c'è Pauline, per tutti Fife, dal fisico acerbo e perfetto, ricca ed elegante, destinata a essere amata fin dall'istante in cui gli appare per la prima volta, avvolta in un soprabito di cincillà. Dopo viene Martha, leggendaria reporter, compagna coraggiosa nei giorni duri e tragici della Guerra civile spagnola. E infine Mary, l'ultima, sposata a Cuba e abbandonata in Idaho in modo persino più crudele di come si era comportato con le altre.
Hadley, Fife, Martha e Mary sono quattro mogli di Ernest Hemingway (1898-1961), e a loro ha deciso di dar voce Naomi Wood - inglese, 33 anni, docente di scrittura creativa all'Università di Londra - nel suo romanzo Quando amavamo Hemingway (traduzione di Isabella Vaj, Bookme, pp. 320, euro 16,90). Quattro mogli, quattro donne tra le tante amate e tradite dallo scrittore più famoso e tormentato della sua generazione. Tra la Parigi degli anni Venti e Key West, tra Cuba e l'America della Guerra fredda, le quattro "Signore Hemingway" si passano il testimone per raccontare una storia densa di passioni e tradimenti, intrighi, ambizioni e gelosie. Perché se - come si dice - dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna, qualche volta ce n'è persino più di una.
Perché ha rivolto la sua attenzione alle figure femminili?
«Ho amato Hemingway sin da ragazza per lo stile secco, asciutto, essenziale dei suoi romanzi. Poi a un certo punto mi è capitato di leggere alcune lettere che aveva indirizzato alle donne che amava, e vi ho trovato uno stile completamente diverso: molto più sensuale ed enfatico. Ad esempio si rivolge loro con vezzeggiativi come "cucciolotta" o "montagnetta"... Ho pensato allora che proprio nelle relazioni con le donne si trovava una chiave per capire davvero l'uomo Hemingway».
Fra le tante donne di Hemingway come mai si è concentrata su queste quattro?
«Ho deciso di limitarmi a descrivere il rapporto con le compagne "ufficiali", vale a dire con le mogli, per raccontare soprattutto la loro ossessione nei confronti di un uomo che probabilmente nessuna di loro è arrivata a conoscere davvero. In questo senso qualcuno potrebbe giungere ad affermare che le protagoniste del mio libro sono loro, più che l'autore di Addio alle armi e Il vecchio e il mare, e forse avrebbe ragione».
Uno dei suoi amori che destarono più scalpore fu la sua passione per la contessina veneziana Adriana Ivancich. Ce ne vuole parlare?
«La conobbe nel dicembre del 1948. Lei aveva 18 anni, lui quasi 50. La ragazza apparteneva a una famiglia aristocratica di origine dalmata, trasferitasi a Venezia nell'Ottocento. Per alcuni si trattò di un amore platonico, per altri no. Nel romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi (1950), ambientato in Veneto, lo scrittore introduce il personaggio di Renata, che allude chiaramente ad Adriana, con la quale l'anziano protagonista ha una turbinosa relazione. All'epoca fu uno scandalo, ma i rapporti tra lo scrittore americano e la famiglia della giovane non si interruppero affatto: Adriana e sua madre fuorono ospiti nella casa di Hemingay a Cuba; il fratello di Adriana, Gianfranco, divenne amico di Mary, la moglie dello scrittore».
C'è una costante nelle diverse relazioni?
«Sì, direi l'entusiasmo iniziale, la dedizione totale alla donna nella prima fase del rapporto sentimentale, e poi la difficoltà a prolungare la relazione nel quotidiano, nella normalità feriale. Da lì il desiderio di trovare nuove emozioni in nuove donne. In questo senso Hemingway è stato un uomo inquieto, senza pace».
Che opinione si è fatta di lui studiandolo da vicino?
«Devo ammettere che all'inizio del mio lavoro di ricerca non ne avevo un'ottima opinione: lo vedevo come un traditore, un bugiardo, un ipocrita. Poi però, calandomi più a fondo nella sua psicologia, ho realizzato che era soprattutto una persona caratterizzata da un incontenibile desiderio di vita e di pienezza. Man mano che gli anni passavano, però, come è naturale trovava sempre più difficile mettere in atto questa sua ansia di vita, dandole risposte soddisfacenti. Da qui il sorgere di un lato oscuro, malinconico, di cui alla fine è rimasto vittima. Si può spiegare così la stessa tragica scelta del suicidio».
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