Rosi e gli otto racconti di “Notturno” «Storie sospese tra vita e inferno»
/ VENEZIA
«“Notturno” inizia dove finisce il reportage o il titolo del giornale. Un'esperienza dall’impatto fisico ed emotivo fortissimo. Passare tre anni in luoghi sconosciuti, lontani, senza conoscerne le lingue, stare per mesi in mezzo al pericolo è un’esperienza che ti fa tornare diverso».
Parola di Gianfranco Rosi, incoronato con il Leone d’oro qui a Venezia nel 2013 per “Sacro Gra” (ma nel 2010 c’era stato anche il Premio Orizzonti per “El Sicario”) e poi con l’Orso d’oro a Berlino nel 2016 per “Fuocoammare”. Ora il regista torna nuovamente in laguna, in concorso con un altro documentario d’autore, stavolta girato in Medio Oriente, «nato dal caso e divenuto necessità».
In “Notturno”, distribuito da domani in ottanta sale e già invitato a molti festival internazionali (Toronto, Telluride, New York, Londra, Busan, Tokyo), l’epica della guerra si scontra con la concretezza del quotidiano, immerso nella “normalità” di esistenze che si consumano giorno dopo giorno a contatto con la paura, il dolore, il trauma della guerra. Otto storie, otto persone che vivono in paesi distanti, diverse per etnia, cultura e appartenenza, compongono un quadro astratto che non offre risposte sul complesso quadro geopolitico in cui sono immerse: Siria, Libano, Iraq e Kurdistan, paesi di cui non si forniscono coordinate precise, finendo per confondersi l’uno nell’altro «in una dimensione non geografica, ma mentale».
«L’idea dei confini è un’idea che non appartiene a quella regione, sono stati segnati nel 1916 dalle potenze coloniali senza considerare le radici, la cultura, di quei popoli che vi abitavano. E da lì che comincia il disastro che conosciamo. A farne le spese è sempre stata la società civile».
«Oggi – prosegue Rosi – sono ancora più confuso di quando sono partito. Il mio non vuole essere un film che offre risposte, ma raccontare storie sospese tra vita e morte, vita e inferno, vita e tragedia».
Girato in condizioni ostili, con una sola persona ad affiancare il regista nelle riprese: «I personaggi sono persone frequentate per mesi, con cui abbiamo stabilito un rapporto di fiducia». Orfani di guerra che in seguito agli orrori di cui sono stati testimoni, presentano disturbi del sonno, balbuzie e sindromi post traumatiche di vario genere, «una Norimberga dei bambini, ora fortunatamente sono in cura in Germania»; una ragazza schiava dell’Isis ora finalmente al sicuro a Stoccarda; o il giovanissimo Alì, sul cui sguardo Rosi si sofferma a lungo, indugiando nell’idea di “futuro sospeso” che si legge nei suoi occhi e che di recente abbiamo imparato a riconoscere anche in Occidente, dal lockdown a questa parte, «ma da loro il futuro è sospeso da anni».
Nonostante la bellezza delle immagini, ricercate, liriche, visivamente potenti (eppure ferma alla superficie delle cose, senza mai addentrarsi nel cuore del conflitto), “Notturno”, accolto con qualche diffidenza, raccoglie applausi ma anche fischi, perplessità che nascono soprattutto dall’etica dello sguardo del regista.
«Eppure sarebbe stato ipocrita non mostrare il dolore – ribatte Rosi – nella stanza dei bambini c’è una testimonianza storica fondamentale: la memoria degli orrori. Sono racconti spontanei dei superstiti dei massacri della comunità Yazida. Mostrare questi bambini, le loro paure, è stato per me un atto necessario, il cuore del film». —
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo