Se l’avvocato finisce in Cattive acque è sempre per una causa pericolosa



Era il 6 gennaio 2016, quando il New York Times pubblicò il dirompente articolo di Nathaniel Rich sul lavoro dell’avvocato di Cincinnati Robert Bilott: dalla totale oscurità alla ribalta internazionale, per l’eclatante caso, fu un attimo. E tra i tanti lettori del quotidiano a restare scioccati e feriti dal racconto c’era proprio il regista Todd Haynes, con qualche mezzo in più dei comuni mortali per trasformare la propria indignazione in qualcosa di ben più grande.

Ecco quindi “Cattive acque” (” Dark Waters” ) in cui l’autore e sceneggiatore californiano dimostra ancora una volta la sua indole versatile a plasmare temi e accenti molto diversi, dal racconto del luccicante glam rock di “Velvet Goldimine” alla multiforme e liberissima resa dell’estro artistico di Bob Dylan di “Io non sono qui” ai toni melò dal sapore anni’50, intimi e soffusi, di “Lontano dal paradiso” e “Carol” : anche se da lui, attitudine “arty” e “queer” fin dagli inizi, un legal thriller contemporaneo proprio non ce l’aspettavamo.

Con una mai celata passione cinematografica – ma chi non ce l’ha – per le sfide “uno contro tutti” in tema di abusi di potere e violazioni industriali mortali stile “Silkwood” o “Insider”, Haynes si è gettato a capofitto a ripercorrere la vicenda di Rob Billott, estenuante e, ad oggi, non ancora conclusa.

Proprio al culmine della carriera, l’avvocato Billott viene contattato da un allevatore conoscente della nonna: la sconvolgente moria del bestiame – l’incipit del film avrà accenti horror – e la nebbia che regolarmente cala sulle sue proteste necessitano di un aiuto legale, convinto com’è che vi sia una fuoriuscita tossica dalla vicina discarica di Dry Run, dove il colosso chimico DuPont scarica i suoi rifiuti.

Diffidente, imparziale, esperto nell’aiutare proprio le aziende chimiche in cause legali, Billott pensa blandamente di controllare i permessi, nel caso ci sia qualche lieve superamento dei limiti. Non crederà all’inferno che sta per scoperchiare: scoprirà una contaminazione, e il suo costante insabbiamento, perpetrato dalla DuPont, consapevole degli effetti anche letali, per oltre 40 anni. Eppure questo C8, l’acido impermeabilizzante usato per conferire antiaderenza alle padelle, veniva sversato a tonnellate, contaminando l’acqua potabile della zona. Sarà l’inizio di una battaglia ventennale, dando origine a una storica class-action che rappresenterà e farà ottenere risarcimenti a 70mila cittadini dell’Ohio e Virginia.

Una vicenda di grande serietà che richiedeva, cinematograficamente, una rilettura attenta e responsabile. Registro che Haynes centra appieno: “Cattive acque” è il racconto, puntuale e misurato, di tali abusi. Il regista non si lascia prendere la mano: a parlare ci pensano i fatti. La progressione del protagonista da difensore delle industrie chimiche a paladino contro i crimini delle stesse è credibile e ben costruita, gli elementi cinematografici sono messi al servizio della storia, all’esposizione dei fatti di una vicenda che, anche così sapientemente contenuta e “asciugata” da Haynes, percepiamo comunque agghiacciante. I produttori sono gli stessi di “Il Caso Spotlight” e, a confermare l’impegno civile del film, c’è Mark Ruffalo. Da interprete, non delude neanche stavolta, superando la prova di maturità a pieni voti. Da attivista, ci mette forse qualcosa in più: il suo non-eroe Billott non può non smuovere anche lo spettatore più freddo.



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