Simona Vinci: «Ascolto la paura»

La scrittrice presenta oggi il suo libro a Trieste
Il male oscuro. Quella forma di disturbo mentale che se non lo provi, è difficile comprendere. E talvolta la comprensione sfugge anche a chi ne è colpito. Occorre pazienza per far fronte a quella che è la malattia del secolo. Lo racconta
Simona Vinci
in
“Parla, mia paura” (Einaudi, pag. 128, euro 13,00)
, la popolare scrittrice Premio Campiello 2016, che sarà a Trieste oggi, al Caffè San Marco (ore 18.30), introdotta da Peppe Dell’Acqua. È una biografia decisa, frontale, narra le vicende dell’autrice nell’angosciante periodo della depressione, ma senza alcuna caduta retorica. Al contrario si attraversano degli eventi decisivi in cui molti si possono riconoscere.


Quale parola è più associabile alla paura?


«Emozione. Senza alcuna connotazione, né positiva né negativa».


Come mai ha deciso di far parlare la sua paura?


«Probabilmente non l’ho deciso, è accaduto, perché da sempre le parole - lette, scritte, ascoltate, dette – sono il mio modo di stare dentro me stessa e fuori, nel mondo, tra gli altri».


Ansia, depressione, crisi di panico, sono patologie diffuse, meno demonizzate di un tempo, perché la gente ancora se ne vergogna?


«Credo sia perché è difficile, pericoloso mostrarsi fragili in un tempo ansioso e rapido, in una società che richiede visibilità continua, performance e produttività. Mostrare le proprie ferite, le difficoltà emotive, vuol dire sfasare il ritmo che ti viene richiesto di mantenere e rischiare di perdere partite importanti: lavoro, carriera, relazioni».


E poi lei affronta la questione del “corpo”, quanto conta essere in armonia col proprio corpo per la propria identità?


«Moltissimo. Il che non vuol dire che il corpo debba essere perfetto, sia da un punto di vista estetico che funzionale: ovvio che essere belli e sani sarebbe l’ideale di ognuno, ma l’equilibrio tra corpo e mente è possibile e necessario “aggiustarlo”, accordarlo, anche in condizioni non ottimali».


Nel suo libro ci sono molti riferimenti al cinema e alla letteratura. L’arte può davvero qualcosa davanti a una depressione?


«Nel momento della disperazione totale credo che niente possa davvero, ma certo l’abitudine alla fruizione dell’arte, la capacità di godere del bello e di vivere emozioni attraverso le varie forme d’arte allena a uscire da se stessi per trovare in altre vite, altre vicende, altri tempi, altre modalità, delle prospettive differenti, aiuta ad ampliare punto di vista e orizzonte, a immaginare possibilità, soluzioni, accettazione».


È ancora diffuso questo luogo comune del disturbo mentale quale elemento quasi necessario a un’artista. Come se una crisi di panico accentuasse la creatività… Cosa mi dice a questo proposito?


«Che non è assolutamente così, anzi direi il contrario. Può darsi che gli artisti abbiano una particolare sensibilità e una predisposizione a ritrovarsi ‘senza pelle’, esposti alle emozioni più intense e angoscianti, ma dovrebbero anche, proprio perché sono capaci di esprimere queste emozioni, farle diventare un oggetto esterno, essere un poco più protetti. Non so, è difficile rispondere, io credo che quando si hanno dei sintomi particolarmente intensi e disturbanti si viva male e dunque si faccia tutto peggio. Tra l’altro, per prendere ad esempio la scrittura, ecco, scrivere richiede uno sforzo di attenzione e pazienza molto prolungato che ha bisogno di tranquillità ed equilibrio».


Qual è la prima arma da usare contro la paura?


«L’ascolto. Il riconoscimento. Hai paura? Ascoltala, ammettila, non combatterla. Negare le emozioni non porta mai niente di buono, alla lunga».


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