Sotto i cieli di Philadelphia la detective Mickey cerca la sorella ai margini del sogno americano

Liz Moore racconta le concitate indagini su Kacey, scomparsa nei sobborghi della droga, mentre un killer si aggira in città

Lisa Corva

Comincia come un thriller, la protagonista è una poliziotta, ma in realtà è uno dei più delicati romanzi contemporanei sulle sorelle. Perché Mickey, che incontriamo all’inizio di “I cieli di Philadelphia” di Liz Moore (appena pubblicato per NN Editore e già alla prima ristampa, 18 euro, traduzione di Ada Arduini), gira per le strade della città, pattugliando, e con il cuore in gola: la sorella è scomparsa.

Non è la prima volta: Kacey, la giovanissima sorella di Mickey, vive per strada e si prostituisce per una dose. È da una vita che si droga, cerca di smettere, non riesce, ritorna sulla strada; è da una vita che sua sorella, che nel frattempo è entrata in polizia, ed è la madre single di un bimbo ancora piccolo, la cerca, la trova quasi morta negli squallidi “abandos” di Philadelphia (le case abbandonate di un’America grigia, povera e terribile). Ma stavolta Kacey è scomparsa. E visto che c’è un killer in città che assassina giovani ragazze che si prostituiscono, Mickey, per la prima volta, ha davvero paura. Man mano, per 464 pagine, una pattuglia dopo l’altra, un appostamento dietro l’altro, mentre su Philadelphia cade la neve ed altre ragazze vengono uccise, scopriamo il passato e i segreti delle due sorelle. La madre bellissima e dolce morta giovanissima per overdose, il padre scomparso, allevate da una nonna fredda e anaffettiva, senza soldi, senza progetti…

Ma anche se comincia con il passo di un giallo, capiamo subito che il giallo vero è quello dei sentimenti; e i misteri che vedremo svelati nel libro sono soprattutto quelli dei rapporti famigliari. Non è un romanzo perfetto, così come Mickey non è una detective perfetta (anzi, segue un paio di piste sbagliate). Ma questo ce la rende più umana. Complimenti dunque non solo all’autrice, ma anche a NN Editore, la piccola casa editrice che, dopo il successo dei bestseller di Kent Haruf, continua a scegliere voci ai margini, dall’America e non solo. Forse perché è proprio lì, ai margini, che si trovano le storie più interessanti…

La Philadelphia che Liz Moore racconta è un quartiere preciso, Kensington: dove un tempo vivevano famiglie operaie, ora territorio di homeless, disperati e spaccio, più di mille morti per overdose ogni anno.

Come ci è arrivata?

«Con il fotografo Jeffrey Stockbridge - risponde -. Nel 2009, quando mi sono trasferita a Philadelphia con mio marito, Stockbridge stava iniziando a scattare, per strada, i ritratti che poi sono diventati un libro e una mostra, Kensington Blues. Sapeva che nella vita scrivo, così mi ha invitato ad accompagnarlo, ad ascoltare e raccogliere storie».

E Liz è arrivata nelle strade del degrado, oggi durante il lockdown ancora più terribili, tra gli “abandos” e i cortili deserti.

«Una crisi sociale, non solo sanitaria. Non dimentichiamo lo scandalo Oxycontin: un analgesico che però è un pericoloso oppioide, e che la multinazionale farmaceutica, Purdue Pharma, aveva incentivato i medici di tutta America a prescrivere. Un disastro a cui è stato molto difficile porre rimedio».

Lei pensa che la scrittura aiuti, anche chi vive per strada?

«Nel 2017 ho cominciato a tenere dei workshop gratuiti di creative writing, per donne, presso il Thea Bowman Women’s Center. Ora è tutto chiuso per il lockdown, ma spero di ricominciare presto: è mio modo di aiutare».

Il legame tra sorelle è così ben descritto. Lei una sorella ce l’ha davvero?

«Sì, più giovane di me di sette anni. La nostra sorellanza è il cuore del libro: ma Kacey, lo dico subito, non è lei. Anche se, purtroppo, nella mia famiglia c’è stato davvero un caso di dipendenza».

Questo articolo uscirà sul Piccolo, il giornale di Trieste. Lei conosce bene l’Italia e parla italiano, qui è mai stata?

«Purtroppo no, ma so che Joyce vi ha vissuto e la amava molto. C’è una sua frase che ho scoperto quando abitavo a Roma: «La prima cosa che cerco in una città sono i caffè. Ma Roma ha un solo caffè, e non è neppure lontanamente paragonabile ai caffè di Trieste. Così sono costretto ad andare in un piccolo ristorante greco, frequentato da Amiel, Byron, Thackeray e Ibsen, e dove il menù è in inglese». E sì, io ho vissuto a Roma, ospite dell’American Academy sul Gianicolo, che offre residenze per scrittori e artisti. È stato meraviglioso, un po’ come vivere per un anno dentro un museo… Lì ho finito il mio romanzo “The Unseen World”, che sarà tradotto in italiano sempre da NN. Ma nel frattempo, spero di venire a Trieste». E scoprire i suoi caffè. —

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