Strehler, moderno militante del teatro

Moriva vent’anni fa, nel Natale 1997, il grande regista triestino, che portò in scena passione e fermezza
Milano, luglio del '47, settant'anni fa. Va in scena per la prima volta lo spettacolo più longevo e più famoso del teatro italiano: "Il servitore di due padroni".


Lugano, giorno di Natale del '97, vent'anni fa. Cessa di vivere colui che di quello spettacolo è stato l'inventore, l'artefice, lo stregone.


Tra quelle due date - l'immediato dopoguerra e l'ultimo scorcio del secolo - si è distesa la militanza teatrale di Giorgio Strehler. Si sarebbe potuto dire carriera, oppure professione. Si sarebbe potuto aggiungere artista e regista. Militanza sembra però il termine più esatto per condensare in una parola sola la passione e la fermezza che legarono Strehler al teatro. In particolare al suo teatro, il Piccolo di Milano.


Fermo e appassionato. Due forze simultanee si manifestarono in lui e nei suoi lavori con un'intensità a cui gli uomini di scena oggi non sono più abituati. O forse non ne sono più capaci. Perché l'epoca contemporanea non le richiede, o le ha messe da parte.


Quelle forze furono però indispensabili nella seconda metà del secolo scorso: il tempo delle ideologie contrapposte, delle battaglie culturali, dell'illusione di una società migliore.


Battaglie e illusioni che i decenni nel frattempo hanno ridotto a fotografie senza contrasto e colore. Immagini stinte dalla diffusione di un pensiero omologato, dal dilagare della tecnologia, dall'onnipotenza del mercato, che hanno trasformato un mestiere fino ad allora profondamente artigiano, quello del palcoscenico.


Passione e fermezza erano invece congeniali a Strehler. Li portava con lui in scena. Ben oltre l'immagine stereotipa che ce lo racconta egocentrico, vanitoso, con i suoi celebri maglioni a girocollo scuri e il riflesso azzurrino dei capelli.


Ci volevano anzi polso e determinazione per affermare, nell'Italia borghese e cattolica degli anni '50, i testi e il magistero del comunista Bertolt Brecht. E ci voleva un'inesausta voglia di invenzione per togliere Carlo Goldoni dalla nicchia del teatro in dialetto, spesso amatoriale, in cui il culto mussoliniano della lingua l'aveva chiuso.


Tra gli anni Cinquanta e i Settanta Strehler aveva rinnovato la scena in Italia. "L'Arlecchino" e "L'Opera da tre soldi" prima. Poi pietre miliari come "Vita di Galileo" e "Santa Giovanna dei macelli", "Le baruffe chiozzotte" e "Il campiello", per consolidare quelli che resteranno sempre i suoi punti fermi, Brecht e Goldoni. E poi altre invenzioni in cui dare voce alla scrittura sfaccettata di Shakespeare: "La tempesta", "Re Lear", per rievocare i titoli più famosi. Ma soprattutto Strehler aveva inventato a teatro una figura completamente nuova: il "regista critico", colui che attraverso i secoli "parla" con gli autori e ne traduce la voce, le idee, i pensieri, per consegnarli al pubblico contemporaneo. Sarebbero venuti più tardi Luca Ronconi, il campione dello smontaggio dei testi, e Massimo Castri, che come fa lo psicanalista, gli autori li metteva sul lettino. "Regia critica" è un oggi concetto lontano, come lo spinterogeno per le automobili. C'è ancora chi la pratica, ma è come indossare i pantaloni a zampa. E ci si dovrebbe invece chiedere, cos'è che resta, settant'anni o vent'anni dopo, della militanza di Strehler.


Restano certo le sue carte e i suoi libri, le sue fotografie, che il Museo Teatrale di Trieste conserva con l'affetto che si porta ai concittadini. E che rimetterà nuovamente in mostra, come accadde proprio dieci anni fa nel primo anniversario della scomparsa, in quel progetto espositivo dal titolo "Strehler privato", fortemente voluto da Adriano Dugulin, allora a capo delle strutture culturali del Comune, e affidato a chi scrive.


Ma al di là dell'analisi storica e della nostalgia, non si può dire che la poetica e la pratica teatrale di Giorgio Strehler vivano ancora tra noi. C'è invece qualcosa della sua passione che ce lo rende affine se rivolgiamo l'attenzione al pubblico, alle comunità in cui il teatro oggi vive.


Audience Development si chiamano oggi, con etichetta anglosassone, quelle pratiche e quelle iniziative che puntano all'ampliamento, al coinvolgimento, alla crescita culturale e sensitiva degli spettatori. Sviluppo e "ingaggio" del pubblico, si dice in un brutto italiano. Ma basta ripensare al formidabile e appassionato slogan, partorito da Strehler e da quell'altro pioniere del marketing culturale che fu Paolo Grassi, e posto a suggello della prima stagione del Piccolo: "Un teatro d'arte, per tutti". Così scrivevano nel 1947 presentando su un foglietto verde il loro manifesto d'intenti.


Reclamare l'arte anche per chi all'epoca non se la poteva permettere fu un primo gesto, un primo spunto di Audience Development, un'attenzione rivolta prima di tutto alla comunità degli spettatori. Una pratica che oggi è diventata essenziale per scongiurare al teatro il tramonto in nicchia d'élite, a cui sistemi forti - le televisioni, le piattaforme digitali, i grandi eventi - lo stanno costringendo.


©RIPRODUZIONE RISERVATA


Riproduzione riservata © Il Piccolo