“Ti squamo” di Rezza le parole d’amore fuori dal senso comune

la ristampa
Antonio Rezza è un personaggio di nicchia, troppo creativo per adeguarsi a regole di sentire collettivo. Attore, regista, sceneggiatore, narratore è conosciuto ai più tramite i suoi cortometraggi, brevi film esilaranti non senza una spruzzata di cinismo. Basti ricordare “Schizzopatia” o cose più leggere come “Il telefonetto”, passando attraverso “Fratello Kraus” (un tempo in onda su “Blob” o “Fuori orario”) o spettacoli teatrali come “Fotofinish”. Ma ha in attivo anche una serie di romanzi, dopo vent’anni dalla prima pubblicazione La nave di Teseo ristampa ora “Ti squamo” (pag. 112, euro 10). Già il titolo ci restituisce la poetica di Rezza, pronto sempre a deviare rispetto al senso comune. Pure la sua narrativa non lascia tregua alla consolazione, anzi, la consolazione è proprio uno degli elementi che combatte.
In “Ti squamo” siamo quasi difronte a un Bartleby melvelliano, a un individualista che poco ha a che fare con il mondo, non capito e non compreso. Il suo fine? Depurare la parola, in qualche misura, evitare per esempio di nutrirsi dal momento che appare quasi blasfemo che parola e cibo usino lo stesso canale. Per cui sempre più pelle che carne si avventura in un’alimentazione alternativa, fatta di libri, giornali, finanche enciclopedie per ragazzi, troppo consolatorie a dire la verità – spiegano il mondo quale non è – ma che hanno il dono di renderti leggero.
Il nostro Bartleby rezziano è sempre più isolato, è costretto all’ospedale, esce, ammazza i genitori o il postino che ha la colpa di recare lettere senza emozione. L’emozione appunto – la sua privazione – è il male del mondo, tanto che il protagonista è disposto a regalare il suo “groppo”. Ma al solito anche sui sentimenti Rezza è un magnifico destrutturatore, come lo era nei suoi corti quando evidenziava come si ha in disprezzo la sofferenza di un solo individuo, perché chiaro: il codice di educazione prevede pianti collettivi per morti collettive. Come se il sentimento avesse a che fare con i numeri.
In “Ti squamo” l’amore è più un fatto di sostanza depurata, squamata, pulita. Faccenda piuttosto ardua perché le parole, appunto, sembrano ormai prive di verità. L’idea allora è di lanciare l’agognato “Ti amo” in un dirupo perché l’eco la restituisca rigenerata. Ma si tratta di un’eco stravagante, non quella che ripete l’ultima parola, ma parole precise nella frase gridata e che risalgono intatte nella forma, ma rotte nel significato: «I discorsi delle autorità, le menzogne di chi è sottomesso, i “non ce la faccio” di chi si sopravvaluta, i “ti sento vicino” di chi è lontano da se stesso». Tutto si rigenera, le parole «brillano scevre da significato. Vedo “solidarietà” priva della parte interessata».
Nulla è lineare in questo libro ideato su un manierismo moderno, su una scrittura che scava anche nel suo passato servendoci una lingua a metà tra il Dolce stil novo e la sua caricatura. Tutto, in una parola, deflagra. Perché in fondo è sempre stata questa la poetica di Rezza, far saltare in aria i luoghi comuni, di pensiero e di linguaggio e “Ti squamo”, nella sua provocazione, mostra tutta la sua attualità, oggi che la lingua è messa ben peggio di vent’anni fa, persa nella banalità dei codici e delle immagini. —
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