Umberto Saba pedofilo? «Quello per Federico era un amore socratico»

di Alessandro Mezzena Lona Da quella storia, i biografi di Umberto Saba si sono tenuti alla larga. Perché spiegare la tormentata amicizia tra il vecchio poeta triestino e il giovane, promettente...
Di Alessandro Mezzena Lona

di Alessandro Mezzena Lona

Da quella storia, i biografi di Umberto Saba si sono tenuti alla larga. Perché spiegare la tormentata amicizia tra il vecchio poeta triestino e il giovane, promettente scrittore dal viso d’angelo Federico Almansi è sempre stato difficile. Inutile nascondere che i parenti stretti del figlio del librario antiquario milanese consideravano sbagliata, venata di pedofilia, quella sintonia così forte da sembrare un rapporto amoroso.

Ma era giusto lasciare che la figura di Federico Almansi scolorisse dietro un muro di imbarazzi, mezze frasi sussurrate, cose non dette? Per Emilio Jona, assolutamente no. Anche perché lui, l’avvocato scrittore arrivato in finale al Premio Viareggio nel 1998 con “La cattura dello splendore”, è stato molto vicino a quel lontano cugino. In modo particolare quando si è ammalato, ha iniziato a entrare e uscire dai manicomi. E poi è rimasto solo, in balia del suo lucido delirio.

Così, dopo aver raccolto per anni lettere, poesie, diari, testimonianze di chi l’aveva conosciuto, ha deciso di raccontare la storia di Federico Almansi in un volume di grande valore. Sospeso tra narrazione, biografia, elaborazione letteraria. “Il celeste scolaro” è arrivaro nelle librerie pubblicato da Neri Pozza Editore (pagg. 223, euro 16), dopo che era stato rifiutato da Einaudi e Mondadori. Sabato 26 settembre, alle 18, verrà presentato alla Libreria e Antico Caffè San Marco di Trieste alla presenza dell’autore.

Bisogna dire subito che “Il celeste scolaro” non è un libro che piacerà ai pettegoloni. E chi lo acquisterà dopo le esternazioni del viceministro, con delega a Istruzione, Università e Ricerca, Gabriele Toccafondi (che ha dichiarato al programma condotto su YouTube da Klaus Davi “KlausCondicio” «del grandissimo scrittore e poeta come Umberto Saba critico le sue relazioni con minorenni, cioè un reato condannabile che si chiama pedofilia, ma non per questo lo ritengo un cattivo maestro, resta infatti il poeta»), resterà deluso. Sì, perché Emilio Jona si muove tra le storie della famiglia Almansi in punta di piedi. Partendo dalla clamorosa vicenda che apre il libro: il processo istruito contro il padre Emanuele, che il 9 aprile del 1953 venne trascinato dentro l’aula della Corte d’Assise di Milano con l’accusa di aver tentato di uccidere suo figlio. Lui si difese ammettendo di avere sparato per evitare a Federico il calvario della pazzia toccato in sorte alla famiglia.

Splendide le pagine finali, quando Federico, ormai solo, ingrassato, cullato dalla schizofrenia, si aggrappa a una lontana parente: Mariuccia. E inizia con lei (che peraltro «era bruttissima», racconta Jona) un epistolario affettuoso, straziante e strampalato, che sembra scritto da un Arthur Rimbaud convertito al dadaismo.

«Ho conosciuto Umberto Saba quando frequentavo la casa degli Almansi, in via Andrea Doria 7 a Milano - racconta Emilio Jona -. Erano le ultime apparizioni del poeta da quelle parti, perchè poi tutto diventò più drammatico quando cominciarono a manifestarsi i segni della malattia in Federico. E la salute dell’autore del “Canzoniere” divenne precaria».

La univa un legame di parentela a Federico Almansi?

«Dalla parte dei Foa. La nonna di Federico era sorella di mio nonno. Ebrei piemontesi della medio-alta borghesia. Gente colta, di sinistra, ma pur sempre attaccata alle tradizioni».

Quando lo ha conosciuto?

«Nel 1949. Io avevo 22 anni, lui era un po’ più grande: ne aveva 25. Mi sono laureato in Legge, ho sempre fatto il mestiere dell’avvocato. Però ero attratto dalla letteratura ed ero andato a fare l’università a Milano. Così, ho cominciato a frequentare casa Almansi negli anni in cui stava tramontando il rapporto con Saba».

Le è capitato di dormire lì?

«Certo, ho dormito nella stessa stanza in cui stavano Federico e Saba. Non è vero che loro occupassero un letto matrimoniale, erano due lettini singoli, separati. Ricordo bene Saba con la pipa, la coppola in testa, i discorsi che faceva. Io, allora, ero totalmente dalla parte di Eugenio Montale. Solo dopo ho capito la grandezza del poeta triestino e sono diventato un profondo estimatore del suo “Canzoniere”».

Ma i parenti di Federico come consideravano Saba?

«Come un corruttore. Ma io non sono assolutamente d’accordo con loro. Per questo ho trattato con grande discrezione, nel mio libro, il loro rapporto. Un caso di pedofilia? Già in “Piccole cose”, i versi scritti tra il 1934 e il ’38 da Saba, ci sono poesie in cui appare la figura di Federico, che allora era tra i 10 e i 14 anni. Però non abbiamo alcuna prova che tra loro ci siano stati rapporti carnali».

Anche Almansi scriveva poesie...

«Infatti Saba, nella sua vita, ha scritto solo due prefazioni: una per Pier Antonio Quarantotti Gambini, l’altra per le poesie di Federico. Che non era un grande scrittore, lo possiamo dire serenamente».

C’era anche un amore femminile, la Betty...

«Quella che Saba definiva “l’ochetta”. Mia cugina Betty era una bellissima fanciulla con una storia incredibile. Sembrava, infatti, che qualunque persona avvicinasse fosse destinata a morire presto. Il padre, la madre, la matrigna, il fidanzato partigiano ucciso dai fascisti in un modo ferocissimo».

Federico presentava a Saba tutti i suoi amici?

«Certo. Penso a Sergio Ferrero, di cui è stato pubblicato di recente l’epistolario con il poeta. Ma anche Alfredo Segre, diventato poi un medico importante a Genova. Federico lo aveva trasformato nel personaggio di un suo romanzo, purtroppo brutto, anagrammando il nome in Doalfe Grese. E confessando, lì, tutto l’amore che provava per lui. Anche se Segre non era affatto omosessuale, anzi lo ricordano come un grande estimatore delle donne».

In un altro romanzo di Federico c’è un giovane Angelo che non può innamorarsi di nessuno perché Dio non vuole...

«Federico si incarnava nel bambino che non vuole crescere. Tiranneggiato da questo Dio che si arrabbia e interviene ogni volta che lui si innamora. Il tutto ambientato in una Trieste di maniera che fa pensare subito alla città di Saba».

Il poeta è stato per lui il padre che avrebbe voluto avere?

«Io credo che tra loro ci sia stato un rapporto di tipo socratico. Dove l’educazione intellettuale passa anche per una conoscenza di tipo amoroso. Basterebbe rileggere il “Simposio” di Platone. Questo legame forte tra il vecchio e il giovane ha instradato Federico Almansi verso la maturità. Saba lo consigliava sull’amore con Betty, leggeva le sue poesie, cose che Emanuele Almansi, il padre vero, non ha mai fatto. Il poeta ripeteva spesso che la sua opera più bella erano le lettere d’amore a Federico».

Dove sono finite?

«Non ho certezze, ma penso che Onorina, la madre, le abbia bruciate. Lei odiava Saba, anche se quando lo ospitava in casa cercava di essere più gentile possibile. Era una donna straordinaria, quasi analfabeta».

Poi è arrivata la malattia di Federico...

«Saba ha sofferto moltissimo. Ci sono delle lettere a Vittorio Sereni da cui si capisce tutta la sua disperazione. Ma il poeta non aveva colpa. La malattia, Federico, l’ha ereditata dalla famiglia. Suo padre Emanuele era una persona con gravi problemi di depressione. La schizofrenia aveva tormentato anche il nonno e il padre, morto in manicomio».

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