“Un anno di scuola” fece scoprire in tv l’anima di Trieste

Compie 40 anni “Un anno di scuola” di Franco Giraldi, uno dei film su Trieste più amati dai triestini. Girato in città fra novembre e dicembre del 1976, fu prodotto da RaiDue (interlocutore il critico e scrittore triestino Tullio Kezich) che lo mandò in onda a colori (novità dell’epoca) in due puntate l’8 e il 10 giugno 1977. In agosto fu invitato al 30.o Festival di Locarno, mentre la 70.a edizione, che inizia mercoledì 2 agosto, include proprio un film “triestino”, “Easy” di Andrea Magnani.
Considerato perduto, “Un anno di scuola” fu riproiettato dieci anni fa al Trieste Film Festival con una pellicola ritrovata, mettendo in fila una folla che dimostrava quanto fossero state epocali le riprese e le trasmissioni di un film che per la prima volta, dopo il bianco e nero di “Senilità”, celebrava nei mass media la letteratura triestina e l’immagine della città.
Tratto da un racconto di Giani Stuparich e ambientato nella Trieste degli anni Dieci, montato e musicato da due futuri Premi Oscar (Gabriella Cristiani e Luis Bacalov), “Un anno di scuola” raccontava di Edda Marty, prima e unica ragazza nell’ultima classe di un liceo italiano dell’Impero asburgico. Ma era sembrato ai ventenni triestini degli anni Settanta tutto fuorché un polveroso film in costume. Argomenti come l’emancipazione femminile e le derive rivoluzionarie giovanili (il ’77 era l’anno del Movimento e degli spari in piazza), poi il coinvolgimento nei provini di centinaia di ragazzi (fra i reclutati, Fulvio Toffoli, Paolo Bidoli, Federico Avian, Sandro Marinuzzi) che nel film parlavano in dialetto, la scoperta della fotogenia della propria città e la riflessione colta sulla sua simbolica identità, tutti questi elementi fecero sì che il film diventasse per i giovani del luogo un attualissimo campo di confronto.

Per chi all’epoca aveva più o meno l’età della protagonista, era paradossalmente come guardare la propria vita sullo schermo. Soprattutto se eri triestino, e intorno c’era un’ex città-emporio a ridosso della cortina di ferro che non aveva ancora capito cosa essere.
Ne era ben conscio il regista Franco Giraldi, ex liceale del “Petrarca”, diventato cineasta a Roma coi western e le commedie all’italiana, ma che dal 1973 con “La rosa rossa” (da Pier Antonio Quarantotti Gambini) si era dedicato al cinema ispirato alla letteratura di confine. «Ho letto “Un anno di scuola” finito il liceo, prima di andare a Roma – aveva detto Giraldi –. Da quel momento ho sempre avuto il pensiero di vederlo trasposto sullo schermo».
La storia è bellissima. È quella vera di Maria Prebil, accaduta nell’anno scolastico 1908/1909 al Liceo italiano “Dante”, quando l’Austria permise anche alle ragazze di iscriversi all’università frequentando l’ultimo anno di scuola insieme ai maschi. L’unica in città fu la Prebil, di origine boema. Nella finzione la vicenda scivola all’anno 1913-1914, in modo che la cena della maturità coincida con la notizia che a Sarajevo era stato ucciso l’arciduca Ferdinando. Fra grande storia e grandi amori (c’è anche un mancato suicidio), Giraldi tratteggia il ritratto corale di una generazione fragile e appassionata, “ventosa” (come lui la definì), ansiosa di progettare il futuro come tanti ragazzi d’oggi. Su di essa piomba questa fanciulla coraggiosa, capace di svelare le piccole contraddizioni dei compagni e quelle grandi del suo tempo.
Per il ruolo di Edda, Giraldi aveva pensato a Isabella Rossellini, ma la scelta cadde poi su un’esordiente romana, Laura Lenzi. «Aveva i colori di una ragazza nata non dico in Boemia, ma a Sesana: era perfetta», commentava Giraldi. Accanto a lei, il bel Stefano Patrizi reduce da Visconti, e l’antagonista Giovanni Visentin, attor giovane udinese di teatro.
Come nei migliori film su Trieste, la città non è solo scenografia, ma un “luogo dell’anima”. I palazzi erano ripresi da sotto in su perché bisognava nascondere le strade, che non si potevano sgomberare per ragioni di basso budget. Ma questo stile, obbligato dalla necessità, serve a Giraldi per valorizzare scorci celebri come il molo Audace, o nascosti come una villa in via Romagna o lo splendido ingresso liberty di casa Mosco in via Tigor, già rivelato in “Senilità” e poi utilizzato più volte al cinema fino alla recente “Porta rossa”. E c’è il fascino degli interni autentici del liceo italiano Dante ripresi nella sede originaria di largo Panfili, quella “oppressa a est dalla mole, tipo Vienna, dal palazzo delle Poste” (Stuparich). E infine c’è la selvaggia spettacolarità del Carso, con le ventose passeggiate di Edda coi compagni che sembrano parentesi oniriche e sovratemporali, quattro passi nell’inconscio della città dove è nata in Italia la psicanalisi (e a cui Edda dopo la scuola si dedicherà).
«Si trattava di una sorta di scommessa visiva – diceva ancora Giraldi –. Bisognava rifare la città del passato senza mostrare carrozze, negozi, gente nelle strade. Nel film non c’è una sola comparsa, tranne che per il funerale della sorella di Edda girato a Gorizia. Questo è il caso in cui il bisogno diventa stile».
Nello spirito, il film rispetta quelli che erano i triestinissimi caratteri della narrativa di Stuparich: autobiografismo, approfondimento psicologico, attenzione ai contenuti. Nella forma, ci sono momenti visivi ed emotivi da grande cinema italiano, come il funerale della sorella o il primo bacio. Momenti che a Visconti non sarebbe dispiaciuto firmare.
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