Un mutante dal volto umano

Gli X-Men? Balle da pisciasotto. Wolverine? È tornato ed è un tossico. Acciaccato, invecchiato, barba incolta e whiskey sempre alla mano: è vedendolo tratteggiato così che impattiamo, non senza un certo sgomento, nella versione riveduta e corretta di ciò che era una delle più sfavillanti e letali macchine di morte partorita dalla mente di Stan Lee e Jack Kirby e così tradotta sul grande schermo da 17 anni a questa parte. A proporla è un eclettico come James Mangold (“Walk the line” su Johnny Cash, commedie, drammi e pure un western, il remake di “Quel treno per Yuma”) che firma sceneggiatura e regia dell'ultimo, definitivo capitolo della saga cinematografica di uno degli eroi dei fumetti più iconici mai creati: “Logan – The Wolverine”.
Più che operare un cambio di passo, Mangold si sgancia in toto dalla tradizione X-Men inaugurata da Bryan Singer innestando non pochi elementi di novità: una storia a se stante innanzitutto, che vive di vita propria elaborando e portando alle conseguenze suggestioni in precedenza solo accennate. Ma Mangold fa di più: contamina la materia fantastica con una fortissima impronta di realismo, non solo depurando la tessitura da quegli strabilianti effettoni speciali che han reso grande il franchise, ma soprattutto tratteggiando una versione di Wolverine inedita, con lui fragile e vulnerabile, depotenziato nella sua invincibilità. Un eroe sul viale del tramonto: versione tanto malinconica quanto affascinante e narrativamente dirompente, con un Logan dalle caratteristiche sempre meno mutanti e dai tormenti, al contrario, sempre più dolorosamente umani.
Sarà anche perché i mutanti sono quasi tutti spariti, nel 2019. La statua della libertà è stata abbattuta da un pezzo e di quelle creature speciali non ne nascono più da 25 anni. E Logan (Hugh Jackman da applauso) è un essere solitario, scoraggiato, che attraversa i tempi nuovi con incedere incerto. Si guadagna da vivere come autista di limousine trascinandosi in una quotidianità qualunque, dove la rabbia si è stinta e ha lasciato il posto a rassegnazione e sfiducia nel prossimo e nel futuro. Lo shock di assistere a una tale trasformazione non è finito: a dividere questo isolamento in un angolo remoto di mondo, girando ossessivamente in tondo e sproloquiando frasi senza senso è nientemeno che il Professor Xavier (Patrick Stewart) ormai malato e in preda a lancinanti crisi che minano quella mente una volta limpida e prodigiosa. A completare il terzetto è Calibano (Stephen Merchant), ancora un emarginato. Ma bruscamente irromperà una richiesta d'aiuto da parte di una donna, per scortare una ragazzina misteriosa e molto particolare (l'interessante Dafne Keen al suo esordio) e portarla al sicuro.
Indovinato come i suoi foschi accenti cromatici a tinte brunite e ocra, “Logan” non teme di rivoluzionare i punti cardine della mitologia sviluppando una storia drammatica di sacrificio e redenzione. A iniziare dal procedere dolente come il suo protagonista, tra pioggia battente e fango, ruderi ovunque, polvere e sporcizia, in un sottofondo intriso di mestizia. Interessante l'idea di far combattere Logan contro se stesso, sia concretamente – in modalità che non sveliamo - che, in modo più sottile, metaforicamente, a spezzare le catene che lui stesso si è costruito. Perché se le scene d'azione non mancano, anzi, con uso della violenza anche crudo, su tutto emerge il conflitto interiore del protagonista, con tanto di riferimento a “Il cavaliere della valle solitaria”, non mera forma ma necessario e struggente come quel sogno evocato a più riprese, quel tendere alla «pace che ritorna in valle» per poter essere, allora sì, finalmente liberi.
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